In cordata

Apuane: la grande bellezza vince su ogni sfregio dell’uomo

Il direttore di Meridiani Montagne risponde alle proteste di alcune associazioni ambientaliste e sezioni del CAI che lamentano - senza avere letto bene la rivista - il poco spazio riservato al problema delle cave di marmo.

Un giorno sono stato a Taranto. Ricordo che avevo lo sguardo puntato a sud, e mi sono detto: “Però, non la facevo così bella Taranto!”. Sì, da una parte c’era il Mar Piccolo, dall’altra il Mar Grande, il centro storico barocco era uno dei più affascinanti che avessi mai visto e più avanti avrei attraversato la città ottocentesca, ricca di palazzi borghesi e di giardini di agrumi. Proprio bella. Poi mi sono voltato verso nord. C’era l’Ilva.

Da molti decenni scrivo su riviste di viaggio, e ogni volta il problema è lo stesso: se parlo di Taranto e della sua inaspettata bellezza, devo parlare dell’Ilva? Ma se parlo dell’Ilva, chi andrà poi a Taranto? E allargando il campo geografico: Palermo uguale mafia? Milano uguale corruzione? Come coniugare la cattedrale normanna e il Duomo gotico con la mafia e la corruzione? La mia soluzione, che qualcuno definirà un po’ ipocrita, è sempre stata: mettiamo la bellezza in primo piano. È quello che ci chiedono i lettori. Dell’Ilva, delle crisi industriali, dei disastri ecologici e della salute dei cittadini, di mafia e corruzione c’è già chi scrive, con maggior competenza di noi che invece ragioniamo di turismo. Poi, nelle pieghe dei nostri reportage pieni di arte, paesaggi e belle foto, ci sarà sempre il momento di dire: “guardate anche verso nord”.

Negli ultimi giorni, la nostra casella di redazione, qui a Meridiani Montagne, si è riempita di messaggi di protesta. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo parlato della bellezza delle Apuane. Ha protestato l’associazione Apuane Libere, ha protestato perfino il presidente del Cai Garfagnana. Secondo loro, avremmo dovuto parlare degli scempi ambientali provocati dalle cave. Invece, “nemmeno una parola” hanno detto. “Vergogna!”

Amici ambientalisti, non avete letto abbastanza bene. Nell’editoriale, a pagina 3, parlando delle mie antiche vacanze in Versilia scrivo: “Ricordo i boati delle mine, ma quelli si sentivano regolarmente anche dalla spiaggia e non c’era bisogno di salire in quota per sapere che, un pezzo alla volta, la montagna stava scomparendo”. E poi proseguo: “In questo numero dedicato alle Alpi Apuane non troverete articoli sul marmo. Abbiamo scelto di lasciarci alle spalle le polemiche e le lotte ambientaliste (che comunque appoggiamo in pieno) contro lo sfruttamento intensivo dei giacimenti, per dedicarci invece alla sorprendente bellezza delle grandi pareti”. Insomma, detto che le cave (o l’Ilva) esistono, ci siamo occupati del resto, che è bellissimo e vale la pena di mettersi in viaggio.

Poi, nelle pieghe della rivista (ma bisogna fare la fatica di leggere), il problema ambientale riemerge più volte. Citiamo per esempio lo scandalo del Parco: “…per tutelare le cave, nel 1997 i confini del Parco regionale che le racchiude (istituito 12 anni prima) vennero ridotti, tra infinite polemiche, da 54mila ettari a poco più di 20mila”. Descriviamo la strada che da Gorfigliano sale alla Carcaraia, “in un paesaggio popolato da mostri meccanici, ruspe, catene diamantate e bracci meccanici, che negli ultimi decenni hanno abbassato la quota del passo di oltre cinquanta metri”. Parliamo della Kerakoll, l’azienda che macina i detriti per valorizzare a fini industriali gli scarti, “gestendo il processo di recupero e trasformazione sulla base di un preciso piano di riqualificazione e ripristino ambientale, elaborato in collaborazione con il Parco delle Apuane”. Qui, l’inviato di Meridiani Montagne commenta: “Dunque, secondo la governance del Parco, macinare detriti di marmo sarebbe una forma di ripristino ambientale. Di sicuro è un business…”, e termina scrivendo che “per questa violenza quotidiana che subiscono, le Apuane sono diventate un simbolo mondiale di resistenza”.
E così via: sfogliando il numero, sono diversi i passaggi in cui le cave appaiono con tutta la loro ferocia, come elemento di distruzione paesaggistica e umana, come quando in Val Serenaia, diretti alla cima del Pisanino, ci muoviamo tra “i suoni delle mine, delle macchine che tagliano e triturano la pietra, fino a diventare parte stessa dell’ambiente”.

Nemmeno una parola? Non ci sembra proprio. Per essere una rivista di alpinismo e cultura della montagna, ambientalista per vocazione ma non “militante”, abbiamo fatto quello che si aspettano da noi i lettori: parlare della bellezza, senza nascondere lo sporco sotto il tappeto.

Ultima nota: del marmo, siccome anche a noi piace contraddirci, alla fine parliamo eccome. Attraverso le splendide immagini d’epoca di Ilario Bessi, fotografo carrarese di grande talento, che ha documentato per decenni l’epopea dei cavatori. Le immagini sono tratte dal prezioso archivio gestito dalla famiglia, “che testimonia una storia economica e sociale, ma anche e soprattutto umana, di enorme rilevanza”. Perché le cave, ricordiamolo, non sono solo un’emergenza ambientale, ma per la gente apuana hanno sempre rappresentato un’insostituibile fonte di reddito.

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