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Il Rifugio Taramelli in Val di Fassa: un viaggio nel tempo

L’intitolazione, nel 1904, ad un geologo ancora in vita, la forma a cubo mai tradita e l’avvicendarsi di giovani gestori alla ricerca di sé in un paesaggio stupendo. E poco frequentato

Quattro mura esattamente identiche, che offrono allo sguardo un cubo perfetto capace di armonizzarsi in maniera altrettanto precisa con l’ambiente circostante. Quel cubo ordinato ed invitante, d’altronde, è già ben visibile sia da valle – mentre vi si sale provenendo da Malga Monzoni -, che in quota, come per esempio dal rifugio Vallaccia, capace di offrire una vista spaziale non soltanto sul vicino rifugio Taramelli, di cui parliamo in questo articolo, ma anche sul rifugio Passo delle Selle, vera meta di molte escursioni che proprio dal Taramelli si trovano a passare.
Eppure questo delizioso rifugio, immerso in una laterale tanto straordinaria quanto poco battuta della Val di Fassa, può andare fiero di una storia davvero incredibile, per niente di passaggio, e che getta le proprie fondamenta nella singolare forma mantenuta fino ad oggi, proseguendo negli anni come crocevia di “rifugisti volontari” in grado di donare ogni estate nuova linfa e freschezza a uno dei luoghi più nascosti del Trentino nord-orientale.

Nel 1903 la SAT fu costretta a pagare il terreno da un funzionario filo austro-ungarico

L’idea di edificare un rifugio nel cuore dei Monzoni risale al 1903, quando la SAT (Società degli Alpinisti Tridentini) ne decise la costruzione per ospitare la visita di alcuni illustri studiosi del Congresso Geologico Internazionale, in programma a Vienna per l’anno seguente. Giuseppe Garbari – imprenditore trentino appassionato di botanica e mineralogia, oltre che fratello del forte alpinista e arrampicatore Carlo – offrì 2.000 corone che contribuirono all’acquisto del terreno individuato per la costruzione nel comune di Pozza di Fassa. Una curiosità, proprio in fase di compravendita, salta all’occhio. Normalmente il terreno per la costruzione dei rifugi veniva regalato dai comuni, ma in questo caso fu pagato a caro prezzo a causa dell’intervento di un funzionario filo-austriaco del comune di Pozza. Il motivo di tale eccezione è, a pensarci bene, evidente: la SAT, in quegli anni, era un sodalizio caratterizzato da spiccate simpatie filo-italiane, in un Trentino che faceva parte dell’Impero Austro-ungarico e le cui amministrazioni non vedevano affatto di buon occhio tali simpatie.

Agli inizi fu meta prediletta dei geologi

Costruito nel giro di pochi mesi, il rifugio fu inaugurato il 9 agosto 1904 con una grande festa e alla presenza dello stesso Torquato Taramelli di cui, da quel momento in poi, portò il nome. Insigne geologo dell’università di Pavia, volontario garibaldino nella battaglia di Bezzecca e socio onorario della SAT, Taramelli era noto per i suoi importanti contributi nello studio della sismologia, ma anche per aver prodotto la prima Carta geologica d’Italia. Rimaneva piuttosto insolita l’intitolazione di un’infrastruttura ad una persona vivente, che, terminato il pranzo, prese addirittura parola per un discorso di ringraziamento, precisando che acconsentiva alla dedica “non come scienziato, ma come patriota”.
Pare però che proprio il discorso di Taramelli si sia configurato come la parte più noiosa della giornata e che la banda di Pozza si sia premurata di accorciarlo iniziando a suonare e a far ballare tutti i presenti.

Nonostante le promesse di grande prestigio che l’inaugurazione del rifugio sortì allora, la sorte del Taramelli fu decisamente diversa. Snobbato dagli arrampicatori, perché le cime attorno non presentavano pareti attraenti – ad eccezione della vicina Vallaccia, facilmente raggiungibile però da valle, senza l’obbligo di dovervi sostare –, richiamava invece molti geologi, che venivano a studiare la zona dei Monzoni, descritta dal tedesco Christian Leopold von Buch come “sede dei fenomeni più svariati e meravigliosi”. Proprio i Monzoni diedero infatti il nome alla “monzonite”, una roccia magmatica intrusiva descritta per la prima volta in questi luoghi.

Situato sulla linea del fronte nel corso della Prima Guerra Mondiale, il rifugio venne utilizzato come comando militare austriaco e come ospedale da campo. Sulle cime dei Monzoni sono ancora numerose le tracce dei camminamenti e delle fortificazioni di guerra, percorsi ora anche dal Sentiero della Pace, che transita proprio per il Rifugio Taramelli. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale fu utilizzato come punto di avvistamento antiaereo, venne gestito per un certo periodo, proprio per la sua valenza scientifica, dal Museo Tridentino di Scienze Naturali.

L’epoca dei gestori “volontari”

Anno di svolta nella storia del rifugio Taramelli fu l’estate del 1961. È in quell’anno infatti che la sua gestione venne affidata alla SUSAT (Sezione Universitaria della SAT) al fine di organizzarvi, per tre anni, dei corsi di divulgazione geologica. Dato il successo come luogo di incontro tra geologi e “studenti-alpinisti” il rifugio divenne la “casa in montagna” della SUSAT e fu gestito da quel momento in poi da gruppi di studenti, che vi si avvicendavano durante le settimane estive dandosi il cambio. Un’occasione per vivere la montagna, incontrarsi ed incontrare persone, in periodi di tempo lunghi o limitati, a seconda della disponibilità che ognuno aveva di spendere i propri giorni sulla cima di quello sperone roccioso da cui il Rifugio Taramelli sembra quasi sorvegliare l’intera Val Monzoni. Ancora oggi, nonostante il gestore “ufficiale” sia ormai da quasi vent’anni Nicola Albertini, l’avvicendarsi di giovani impegnati nell’aiutarlo – come volontari, come soci SUSAT o come studenti delle superiori in alternanza scuola-lavoro – non manca. Molti vanno e vengono, alcuni tornano, pochi restano (quasi) per sempre: è il caso di Chiara Boccardi, pugliese d’origine ma torinese di formazione e fassana d’adozione, innamoratasi delle montagne anche grazie alla sua esperienza al Taramelli e che sogna, un giorno, di poterle insegnare agli altri, magari come guida alpina.

La forma a cubo, testimonianza dell’architettura dei rifugi del tempo

Nel nostro racconto manca però un ultimo elemento ed è quello da cui siamo partiti: la forma cubica del rifugio, che oggi, all’epoca di ristrutturazioni spesso al limite – ree di stravolgere non soltanto un edificio ma l’intero ambiente nel quale è situato – ci sembra stravagante. In realtà, in quei primi anni del Novecento, la forma “a cubo” dei rifugi era la prassi: punto di partenza di un’evoluzione architettonica che si plasmava attorno alle esigenze di ottimizzazione di spazi, materiali e del loro trasporto. Nel corso degli anni, ovviamente, le cose sono cambiate e le volumetrie hanno preso gradualmente il posto del minimalismo, di nuovo ricercato, ora, dai frequentatori della montagna più nostalgici. Ecco, il rifugio Taramelli, a questo minimalismo, non è mai venuto meno. Forse perché la sua posizione, sulla cima di un cocuzzolo, non permette altrimenti. O forse per restare fedele al suo secolo abbondante di storia, che qui – fra rocce nere, boschi a picco e l’avvicendarsi della “meglio gioventù” – sembra davvero rivivere ogni giorno, ferma in un tempo sempre presente.

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