
Nei giorni d’agosto, mentre i social divorano ogni notizia e la montagna diventa improvvisamente argomento da salotto nazionale, sembra che non si parli d’altro che della “Confortoleide” e delle relative cronache d’alta quota. Non più solo chiacchiere da rotocalco e gossip: ora anche le vette oltre gli ottomila metri sono diventate passioni nazionalpopolari.
Ma non è di questo che vorrei parlare.
C’è più interesse e meraviglia nell’osservare le minuscole pulci delle nevi, che saltano vivaci sul ghiacciaio, che non nello scorrere diatribe su bombole d’ossigeno, foto ritoccate e primati effimeri. Basta fermarsi un attimo, chinarsi a guardare, e ci si accorge di un piccolo mondo pulsante, di vita silenziosa e sorprendente, che sfugge allo sguardo frettoloso e al rumore dei social. In quelle piccole creature, nel loro saltare instancabile sulle distese ghiacciate, c’è una meraviglia più autentica di qualsiasi polemica d’alta quota.
Si osserva allora il ghiaccio sotto un’altra luce: ogni granello, ogni minuscola fenditura, diventa teatro di un’incredibile vitalità. Qui, lontano dal superomismo delle imprese e dai record decotti, la grandezza non è nella performance esibita, ma nell’esistenza silenziosa e instancabile di chi salta senza pubblico.
Il vero tema è un altro: ovunque, le stesse dinamiche umane si ripetono uguali a sé stesse. Se Capi di Stato e ministri, ogni giorno, possono dispensare finzioni e bugie senza remora né vergogna ai propri seguaci, perché stupirsi che lo stesso accada, in scala ridotta, anche nel mondo dell’alpinismo?
Non sono forse le nostre montagne anch’esse contaminate dalle piccolezze umane? Forse l’insegnamento sta proprio qui: sottrarre le cime al teatrino delle vanità, liberarle da ogni riferimento autoreferenziale, non ridurle a scenografie per i nostri miseri spettacoli, ma tornare a frequentarle con occhi sgombri, cogliendo il silenzio, la grazia, la vastità.
Inutile sperare che con lo stesso slancio ed energia dedicate all’autoaffermazione si possano veicolare messaggi di reale cura e difesa delle montagne. Non si chiede certo di emulare figure come Renzo Videsott, pioniere della protezione ambientale alpina, o Guido Rossa, operaio e alpinista che pagò con la vita il coraggio civile di denunciare il terrorismo. Né filosofi-alpinisti come Arne Næss, che dalle cime norvegesi lanciava un’etica ecologica radicale, o attivisti come David Brower, alpinista e direttore del Sierra Club in prima linea contro la devastazione dei parchi.
Si potrebbero ricordare uomini di montagna come Bill Tilman, che rifiutava ogni spettacolarizzazione in nome della sobrietà e dell’esplorazione autentica, o Tom Frost, che difese con passione le pareti di Yosemite dall’uso invasivo dei chiodi, o Carlo Alberto Pinelli, regista e fondatore di Mountain Wilderness, instancabile nel battersi per una montagna libera da sfruttamenti e manomissioni.
Alcuni hanno scelto la montagna per servire, non per servirsi. Forse vale la pena ricordarlo, ogni volta che le vette vengono trasformate in un palcoscenico per le nostre miserie.
“How you do anything is how you do everything” ovvero, (come fai una cosa conta sopra ogni cosa) Tom Frost.