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Giorni, non ore: un tempo ritrovato per ascoltare la montagna

Prendersi il tempo per apprezzare tutto quello che sa regalare un’escursione in quota. Camminare senza fretta, ma guardandosi intorno. Anche se così si ritorna a casa un giorno dopo il previsto

Il ritrovo è alle nove, a quasi duemila metri, dove termina la strada costruita negli anni Sessanta per la realizzazione degli impianti idroelettrici. Un tempo, l’avventura cominciava molto più in basso, a fondovalle, mezza giornata, di silenzio e fatica in più.

Ora è tutto un po’ più vicino, ma per chi ha voglia di ascoltare, la montagna è ancora lì, pronta a offrire il suo tempo lento.

Zaini pronti, uno sguardo complice, e si parte. Il sentiero si inerpica tra le rocce levigate da antichi ghiacciai, si supera presto il limite della foresta e i pensieri – quelli della città, del lavoro, dell’ora esatta – iniziano a svanire. Restano i passi, il respiro, il rumore delle suole che grattano pietre sempre nuove.

Ci vuole tempo, e un po’ di sudore, per varcare la soglia. La premessa per questa nostra avventura è chiara: non più ore, ma giornate. Il vocabolario ammesso esclude il “quanto manca?” e lascia spazio solo a domande che nascono dallo stupore e dall’incontro con l’inatteso. Rocce, fiori, animali, segni antichi dell’uomo, crinali, creste, tracce.

Oltre il valico, superate le nostre personali Colonne d’Ercole, ci investe il respiro dei ghiacciai. È un’aria turbolenta, quella di queste giornate di mezza estate, mutevole, con nuvole che vanno e vengono, come pensieri irrequieti. Nel pomeriggio, il rifugio storico ci accoglie. Non è un ristorante in alta quota, ma uno spazio che invita a rallentare lo sguardo, a comprendere la vastità che abbiamo dimenticato.
La sera è fatta di curiosità e inquietudine, in quella misura sottile che è la cifra dell’alpinismo vero. Il desiderio di salire, di conoscere, ma anche il dubbio.

All’alba, il meteo è incerto, ma il nostro tracciato è praticabile. Volti assonnati, sguardi lucidi, si parte sul filo di pietre instabili, morene scomposte che portano all’inizio del ghiacciaio. Ai margini, si calzano i ramponi, ci si lega. Un sorso di tè caldo, e ancora un’occhiata verso l’alto, dove la montagna resta nascosta dietro le nubi.

Le previsioni parlavano di un transito rapido, niente di intenso, ma la previsione non è certezza. Una pioggerella insistente avvolge tutto in una luce cupa e spettrale. Il ghiacciaio è bellissimo, sferzati dalla pioggia, attraversiamo estese fasce di detrito che ricoprono la superficie, resti di grandi frane, trascinati dal grande nastro mobile d’acqua solida.

Nessun guscio tiene, si bagna tutto, poi, come un dono inatteso, un raggio di sole trapassa le nubi e illumina il versante. E’ un sollievo breve, le nebbie tornano e la pioggia, mista a neve, decide di restare.

Non si può fuggire, si può solo stare. Dentro lì, lasciarsi attraversare, afferrare l’opportunità di vedere ciò che pochi vedono: la montagna nel suo silenzio più crudo, in quella nudità che disorienta e affascina, dove il bianco ovattato cancella i riferimenti, ma sotto i ramponi ci guidano le pietre, i dettagli, le conferme.

Il ritorno al rifugio è un rientro in porto. Un luogo che riacquista il suo senso autentico, rifugio, non comfort, ma accoglienza. La stufa, una minestra calda, i vestiti a sgocciolare. Ora in mutande, sì, ma felici. Nessuna voglia di precipitarsi giù, nella mischia delle bassure.

Il mattino dopo spunta un azzurro che fa ben sperare e si scende per un vallone grandioso, scolpito dalle acque di fusione dei ghiacciai del Bernina. Un caos minerale straordinario con pietre di mille colori, torrenti da guadare, antiche morene da seguire come sentieri segreti. E poi, lentamente, il verde ritorna, l’erba si fa alta, i fiori esplodono, i primi larici annunciano il ritorno del bosco. Ogni altitudine ha il suo profumo.

A valle, ci accoglie un altro acquazzone, ma subito torna il sole. E con lui, l’energia e i ricordi di tre giorni vissuti lontano da tutto. Lì dove la montagna è ancora libera, e non serve aggiungere altro.

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