Rifugi

Ospizio Sottile, dal 1823 un approdo sicuro tra la Valsesia e la Valle di Gressoney

Posto ai 2480 metri di quota del Colle Valdobbia, nacque come riparo per viandanti e commercianti. Oggi è un rifugio per escursionisti alla ricerca di silenzi e antiche suggestioni

All’inizio era una strada. Ma non una qualunque. La Grande Strada d’Aosta, nota anche come Via Regia, era molto più che una via di collegamento: era un’arteria viva, pulsante, che nel cuore del Settecento metteva in comunicazione il Ducato di Milano con la Valle d’Aosta, la Francia e la Svizzera.

La risalivano i mercanti, sì, con muli carichi di spezie, ferri, granaglie, sale e idee. Ma soprattutto la percorrevano loro: gli emigranti stagionali, uomini con le mani spaccate dal gelo e dal lavoro che in quegli anni si spostavano verso l’estero per lavorare come muratori e falegnami. Partivano a marzo, tornavano a novembre o dicembre, affrontando ogni anno il viaggio della sopravvivenza.

Il percorso era lungo e aspro: dalla Valgrande si saliva fino a Riva Valdobbia, tappa d’obbligo per chiunque volesse valicare il Colle del Valdobbia, transitando per la Val Vogna e poi scendendo a Gressoney-Saint-Jean. Di lì si superavano i colli della Ranzola e di Joux, per raggiungere Aosta e da lì biforcarsi verso il Gran San Bernardo o il Piccolo.

Il freddo era un compagno costante. Ma l’inverno, quello vero, era il nemico. Perché proprio nei mesi del ritorno, quando la nostalgia spingeva a casa e la neve ostacolava ogni passo, si consumavano tragedie. Valanghe, tormente, gelo: ogni stagione lasciava indietro dei nomi che nessuno scriveva, ma che tutti ricordavano.

Nel 1787, per volontà di Gian Giuseppe Liscotz e del capitano Gianoli, vennero costruiti sul Colle una stalla e una cappella per dare riparo ai pellegrini. Ma bastavano? No. Troppa gente, troppo passaggio. Fu allora che Nicolao Sottile, canonico originario di Rossa e figlio lui stesso di emigranti, decise di agire.

Dopo la morte di molte persone sotto una valanga nel 1820, fece costruire a proprie spese un Ospizio sul colle. Un baluardo contro la morte, un abbraccio di pietra e calore in mezzo al bianco. Ultimato nel 1823, fu il primo, e il più alto delle Alpi.

A tenerlo aperto, negli inverni tra il 1822 e il 1831, fu lo stesso Sottile. Poi, il Comune di Riva Valdobbia ne prese la gestione. Dal 1833 al 1856, il testimone passò a Giacomo Clerino, ex soldato napoleonico e uomo di montagna. Custode, guida, fratello di passaggio.

Nel tempo, l’Ospizio accolse anche nobili, regnanti, studiosi, ma il suo vero ruolo non cambiò mai: salvare vite. Dal 1871 ospitò anche un osservatorio meteorologico, il primo in Piemonte. Ma per i mercanti, per i braccianti, per quei padri che tornavano a mani vuote ma col cuore pieno, l’ospizio fu una sola cosa: speranza concreta.

Pochi edifici sulle Alpi possono vantare un intreccio di storie tanto fitto. Pochi pavimenti, oltre i duemila metri, sono stati calpestati da così tanti piedi in così tanti secoli.

Come arrivare

L’Ospizio del Colle di Valdobbia è stato ristrutturato nei primi anni Duemila e oggi ha ritrovato nuova vita grazie a Simone Polenghi, un giovanissimo rifugista che dal 2020 ne cura la gestione con passione e rispetto per il passato.

Lo si può raggiungere da entrambi i versanti della montagna: dal lato piemontese, si parte dalla Valsesia e si risale la Val Vogna (1150 m D+; 3.30 ore), dove casette in stile walser, pascoli verdi e ruscelli accompagnano la salita. Tra gli elementi più curiosi, anche un ponte costruito dai soldati di Napoleone nel XIX secolo, ancora lì a raccontare la sua parte di storia.
Dal versante valdostano, invece, si sale da Gressoney-Saint-Jean (1.100 m D+; 3.30 ore) lungo un itinerario leggermente più ripido , ma punteggiato da alpeggi, casolari e tornanti che si snodano tra boschi ombrosi e, più su, panorami aperti.

Per chi desiderasse davvero calarsi nello spirito di quell’epoca, è consigliatissimo il “Sentiero del Viandante”: un anello escursionistico che collega i due versanti e permette di ripercorrere, passo dopo passo, le fatiche e le speranze degli erranti della montagna settecentesca. Un cammino lento, ma denso di memoria.

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