Un piede dopo l’altro, correttamente. La prima forma di protezione
Solo quando il corpo riesce a sentirsi un tutt’uno con il terreno, la progressione sarà davvero sicura. Tutto il resto viene dopo
Spesso, all’arrivo al rifugio, nel pomeriggio che precede l’ascesa, lo si capisce subito: qualcuno ripassa.
Fuori, sul tavolato o vicino a un sasso piatto, si formano piccoli gruppi raccolti attorno a un ancoraggio improvvisato. Si ripassano nodi, si montano soste, si mettono alla prova soluzioni diverse per il recupero da crepaccio — la manovra più ambita, la più scenografica. Vorticano piastrine, frullano cordini, brillano moschettoni. C’è chi sfodera il “paranco mezzo poldo” con orgoglio, chi propone varianti creative, chi osserva con occhi sgranati e taccuino alla mano.
Tutto importante, utile e certamente da sapere.
Ma quando, a notte fonda, si uscirà dal caldo del rifugio per calzare i ramponi sul terrazzo gelato, quando ci si infilerà nel buio della morena con la luce frontale che disegna un piccolo cerchio tremolante davanti agli scarponi, servirà altro. Servirà mettere un passo davanti all’altro, non scivolare, percepire ogni centimetro degli appoggi.
Sentire sotto i piedi – e dentro il corpo – la qualità del contatto.
Radicarsi, appunto.
È in quell’attimo sospeso della sera, seduti fuori dal rifugio, col sole che cala piano dietro le creste e la mente già rivolta alla salita dell’indomani, che tutto questo diventa chiaro.
Si scambiano poche parole con il compagno di cordata, e ci si intende al volo. Ciò che conta davvero non è solo il numero di nodi imparati, ma la capacità di restare presenti, stabili, essenziali.
Liberi dalle distrazioni che spesso ci portiamo quassù – materiali, consuetudini, illusioni – iniziamo a camminare con più attenzione. Un piede dopo l’altro.
Con qualche semplice esercizio, proviamo il passo, il corpo che ascolta.
È proprio questa sensibilità – lungo sentieri, su rocce, pendii di neve e ghiaccio – la nostra prima forma di protezione.
Capire l’aderenza prima ancora di provarla, intuire la tenuta, lasciare che il corpo risponda prima della mente. Da questo radicamento esteriore – attento, corporeo, terreno – nasce un radicamento interiore, una presenza che ci accompagna nella salita e ci permette di vivere ogni gesto con maggiore lucidità ed attenzione.
Forse è da questo equilibrio silenzioso, liberi da rumori di fondo, che nascono le salite migliori, quelle che, anche a distanza di anni, non si dimenticano più.