Antelao, dopo le frane la strada riapre. Ma le criticità rimangono
Il geologo Piero Gianolla spiega come andrebbe cambiato l’approccio a un problema antico della Valle del Boite


La notizia della riapertura – seppur con molte limitazioni – della Strada statale 51 di Alemagna, chiusa per le frane che si erano verificate dal primo luglio tra Cortina D’Ampezzo e San Vito di Cadore, non può che far piacere. Ma la strada per mettere la parola fine – per quanto possibile – al problema delle frane che dall’Antelao, dalla Croda Marcora e dal Sorapiss scendono sulla Valle del Boite è ancora lunga. E forse ancora da tracciare.
Non a caso i recenti e ripetuti fenomeni franosi che hanno interessato i comuni di Borca e San Vito di Cadore stanno alimentando un acceso dibattito anche a seguito delle pesantissime conseguenze che hanno avuto sia sulle abitazioni della frazione di Cancia a Borca che sulla viabilità di un’arteria importante qual è la strada statale 51 di Alemagna, principale via per raggiungere Cortina.
“Imputate” sono due montagne dolomitiche famose, il Sorapiss, con la sua Croda Marcora, e l’Antelao, nei versanti rivolti alla valle del Boite. Detto fin da subito che è destino di ogni montagna subire l’erosione degli agenti atmosferici e che questo ha comportato episodi spesso drammatici, quella valle e quei paesi sono abitati da secoli. Chi ha convissuto e convive con questa realtà, quei monti ama e ha amato, e quei paesi hanno saputo risorgere anche dopo immani tragedie. Valga come esempio la frana per crollo dall’Antelao che il 21 aprile 1841 distrusse completamente i due villaggi di Marceana e Taulen causando 314 vittime. Ma episodi franosi e luttuosi si ebbero anche in precedenza nel 1736 e nel 1737 e si ripeterono molte volte anche successivamente. Nel 1868 una colata detritica seppellì Cancia con 13 edifici coinvolti e 12 vittime. In tempi più recenti, nel 2009 una madre e un figlio vennero uccisi ancora a Cancia da una colata d’acqua e detriti, e nel 2015 a San Vito di Cadore una ragazzina di 14 anni e due uomini persero la vita travolti da una massa di terra e fango durante un’ improvvisa bomba d’acqua.
Per inquadrare questi fenomeni e capirne di più, abbiamo intervistato Piero Gianolla, professore ordinario di Geologia all’Università di Ferrara, profondo conoscitore delle Dolomiti e coinvolto nei progetti della loro cartografia geologica compresa l’area interessata da queste frane.
Professor Gianolla, Antelao e Sorapiss sono realmente montagne più fragili rispetto alle altre Dolomiti ?
Tutte le montagne hanno la loro peculiarità. Ma l’intero versante a sinistra del Boite che va da Acquabona, la frazione più a sud di Cortina, fino all’Antelao è caratterizzato da pareti molto verticali con alla base enormi ammassi di detriti. Queste pareti, inoltre, sono molto fratturate perché c’è una serie di faglie, e di conseguenza c’è una tendenza naturale a franare. Accade anche altrove ma qui, siccome sotto ci sono i paesi e passano le strade, il problema è complesso .
Le dinamiche che presentano la Croda Marcora, nel Gruppo del Sorapiss, e l’Antelao sono simili?
Direi di sì. Sul Marcora è più accentuata tutta una serie di fratture parallele, la roccia è stata deformata, guardando la parete ci si accorge che è sempre “nuova”, per cui sembra quasi che si stacchino delle fette, che continueranno a franare. Magari adesso si stabilizzano ma può essere che tra un anno le frane riprendano. È un’evoluzione del tutto naturale di quel tipo di parete. Anche l’Antelao ha delle pareti molto acclivi con delle fratture. Sopra Cancia abbiamo una zona di accumulo di materiale estremamente importante. Basta che arrivi una pioggia molto intensa che tutto questo materiale si muove e scende a valle. Abbiamo molte testimonianze storiche dei vari tipi di frana (per crollo o per “debris flow”, cioè un particolare tipo di frana che si verifica quando grandi quantità di detrito, misto ad acqua e massi anche di grandi dimensioni vengono improvvisamente mobilizzate e scorrono verso valle) relative alle zone abitate come Borca. Sotto il Marcora le testimonianze storiche sono meno, non perché eventi franosi non siano accaduti, anzi, ma perché quel tratto è solo percorso da una strada e sia nei secoli passati che in tempi più recenti lì non si è costruito.
Quindi niente di nuovo ?
Tutt’altro. Le frane ci sono sempre state ma la novità a cui assistiamo è l’accelerazione degli eventi.L’aumento della temperatura estremizza gli accadimenti, lo zero termico si sta alzando, il ghiaccio antico che era presente in quelle fessure, il permafrost, non c’è più, e le pareti sono fuori equilibrio termico. Se si liberano dal ghiaccio, le fessure si aprono così d’inverno l’acqua può entrare e ghiacciandosi le allarga, agendo come un cuneo, rendendo ancor più fragile la roccia. Oltre a questo sono cambiate le piogge, che si concentrano in bombe d’acqua, non solo sulle Dolomiti, apportando in poche ore la quantità d’acqua che cadrebbe in un mese. Poi queste montagne sono “attaccate” al mare e le perturbazioni scaricano qui.
Lei afferma che questi fenomeni non si possono evitare ma si possono gestire meglio. Vuol dire che finora sono stati gestiti male?
Bella domanda. Assodato che il rischio zero non esiste, non è che se fai una vasca di contenimento il problema è risolto. Basta che la colata si sposti di un po’ e siamo daccapo. Bisognerebbe ripensare al modello di infrastrutture. Non è pensabile una montagna da cartolina con tutto fermo. Le montagne continueranno a franare e quindi le infrastrutture andrebbero pensate per un rischio che non è zero ma un rischio residuo importante. E questo è un problema, perché che cosa fai? Non è che puoi eliminare la strada. Potresti pensare a qualcosa di diverso. Invece di continuare a gestire queste colate sarebbe più furbo trovare un sistema, costosissimo tra l’altro, di alzare la strada, costruendo viadotti sotto i quali le colate possano passare. Anche fare delle gallerie in modo che le colate passino sopra potrebbe creare dei problemi idraulici. Bisogna fare degli studi. Pensando a qualcosa che non sia solo lavorare in emergenza. Tutta la zona da Acquabona a Chiapuzza è una continua serie di debris flow, una volta si attiva questo, un’altra si attiva quell’altro.
E costruire una strada sulla destra orografica del Boite ?
Anche quel versante ha dei problemi. Quello che andrebbe fatto è uno studio complessivo. Non è il mio mestiere ma quello che vedo più realistico è un viadotto con dei piloni protetti. Ma non è così semplice. Sono stati fatti dei sondaggi e ci sono almeno cento metri di detriti, non c’è roccia sotto. La situazione geologica è complessa e va studiata con gli opportuni finanziamenti invece si lavora sempre in emergenza.
L’altro problema gigante sono gli allarmi. Tu fai partire l’allarme quando la frana comincia a muoversi, ma il tempo per mettersi in sicurezza è questione di minuti. E nel caso di Cancia l’allarme non è nemmeno scattato. Il sistema va ripensato.
Per quanto riguarda gli abitanti delle case a rischio potrebbero essere offerta loro la possibilità di spostarsi in zone più sicure. La legge attuale prevede però che la casa lasciata venga valutata in base al valore catastale, che per evidenti motivi è molto basso. Va rivisto il sistema con l’importante obiettivo di consentire alla gente di rimanere in montagna. Bisogna dare delle alternative e ragionare in termini di futuro. Ma è complicato, perché il territorio lassù è divenuto prezioso. Continuiamo ad avere dei luoghi in cui la gente non ha più la possibilità di vivere perché costa troppo.