
Peaio è un minuscolo borgo della Val Boite, terra di cattedrali di roccia come l’Antelao e il Sorapiss. A quota 890, vivono meno di un centinaio di abitanti. È un paradiso per i ciclisti, che possono percorrere il tracciato della Ferrovia delle Dolomiti oggi diventata pista ciclabile per l’estate. Qui sorgeva la vecchia stazione di Peaio Vinigo, frazioni di Vodo di Cadore, e il treno a scartamento ridotto che collegava Dobbiaco in provincia di Bolzano a Cortina d’Ampezzo passava per il paese. Da Peaio sono transitati in treno gli spettatori delle Olimpiadi invernali del 1956 a Cortina. Nei tempi d’oro, la ferrovia arrivava a trasportare 7000 passeggeri al giorno. Ma l’Italia degli anni Sessanta sognava un’auto per tutti. E così una ferrovia che oggi sarebbe un’attrazione e uno strumento per combattere gli ingorghi e l’inquinamento fu definitivamente chiusa nel marzo1963.
Passando per Peaio nei pressi della chiesa, non si può non essere incuriositi da uno strano monumento. Rappresenta un cono gelato alto due metri in ferro battuto, con una figura umana stilizzata a fianco. Lo firma uno scultore locale, Diego Imperatore. Più in là, una ruota idraulica in legno, che ricorda la segheria e i vari mulini che sorgevano lungo il torrente Rudan ormai scomparsi, un tributo all’economia agricola di una volta. Ma il cono gelato, che cosa c’entra con questo paesino di montagna? È un omaggio a un cittadino illustre, che difficilmente qualcuno conosce al di fuori di questa zona, ma che ha ideato qualcosa di rivoluzionario per chi ama il gelato: la cialda edibile dove vengono appoggiate le palline, ovvero il cono. Si chiamava Italo Marchioni e nel 1868 nacque proprio qui, a Peaio. Una delle poche foto che circolano di lui ce lo mostra in giacca e cravatta e con un bel paio di baffi scuri. Sembra un imprenditore, più che un contadino. E infatti lo fu.
È terra di emigrazione, il Bellunese della seconda metà dell’Ottocento. Anche la famiglia di Italo, che è il primogenito di otto figli, va a guadagnare qualche soldo lontano dal paese. «Quando nasce Italo, erano due anni che il Veneto era entrato a far parte del Regno d’Italia», racconta Marco Moretta, ingegnere e cultore di storia locale, di Peaio. «In quegli anni la popolazione era cresciuta e l’agricoltura di montagna non offriva opportunità per tutti. In molti casi, partivano prima gli uomini come stagionali, e se avevano successo in seguito portavano anche moglie e figli. I Marchioni hanno lavorato in Austria, Serbia, Ungheria. Alcuni dei loro bambini sono nati lì. Facevano i venditori ambulanti di dolciumi e pere cotte, quello che oggi definiremmo street food». Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, i genitori di Italo con i loro figli decidono di tentare la fortuna in America, insieme ad altri parenti. Vanno a Philadephia, dove aprono una pasticceria: Italo imparerà lì il mestiere, insieme a fratelli e cugini. La famiglia decide anche di buttarsi in un business che in Europa era dominato dai loro vicini della Val di Zoldo e di altre zone del Cadore: il gelato. Nell’Impero Austroungarico, infatti, i gelatieri provenivano tutti da queste terre di montagna, dove il latte e la panna non mancavano, e anche il ghiaccio per conservare il prodotto. Il giovane Marchioni debutta con il gelato artigianale, di vaniglia e gusti di frutta, che vende girando con il suo carretto per le strade di Manhattan. All’epoca, nei raffinati caffè di Parigi, il gelato si gustava seduti, in una coppetta. Gli ambulanti come Marchioni sono costretti a trovare un sistema per offrire il prodotto alla clientela. La scelta ricade sui bicchieri di vetro, che il gelatiere deve avere in dotazione. Il cliente compra il gelato, resta nelle vicinanze del carretto e quando ha finito restituisce il bicchiere. Italo si rende conto presto che non è la soluzione ideale. C’è chi si allontana passeggiando, e si dimentica di ridargli il bicchiere. E c’è a chi cade dalle mani, frantumandosi. Esiste anche un problema di igiene, i bicchieri vanno lavati e non è facile farlo da ambulante.
Italo, che aveva anche esperienza da pasticciere, cerca una soluzione. Nel 1896 inventa una cialda che si poteva arrotolare a forma di cono, sulla quale era possibile appoggiare le palline di gelato. «Non brevetta questa sua invenzione», commenta Moretta. «Però il MoMA di New York gli rende omaggio ed espone il cono creato da lui fra gli oggetti di design che sono capolavori umili, citando come data proprio il 1896». Il successo è tale che in qualche anno Marchioni, che decide di americanizzare il suo cognome in “Marchiony”, giunge ad avere 45 carretti gelato a New York. Il cono in cialda di wafer arrolato a mano non basta più: bisogna trovare una soluzione più efficiente per produrlo, che soddisfi la grande richiesta del pubblico. «Marchioni inventa uno stampo per i coni da utilizzare in una produzione industriale», aggiunge Marco Moretta. «Nel settembre 1903 scrive una relazione sulla sua invenzione e la presenta all’Ufficio Brevetti americano. Il 15 dicembre dello stesso anno ottiene il brevetto». Forte di questo risultato, nel 1904 prende parte alla Fiera di Saint Louis, dove si fa conoscere e riceve ordinazioni. Qui il gelato va a gonfie vele, ci sono anche altri concorrenti che propongono soluzioni alternative, ma l’idea di Italo è vincente. «A questo punto, inizia a progettare il suo stabilimento nel New Jersey, a Hoboken, che si trova di fronte a Manhattan, per produrre coni gelato. Ha bisogno di gente fidata al suo fianco. Coinvolge la famiglia e chiama altri parenti da Peaio ad aiutarlo. Inclusi i suoceri, cioè i genitori di Elvira De Lorenzo, una compaesana che aveva sposato a Philadelphia e con la quale aveva avuto tre figli maschi», puntualizza lo storico.
Le diatribe sulla paternità dell’invenzione
Fra i tanti parenti, Italo coinvolge anche il cugino Frank Marchiony. E qui hanno inizio i suoi guai. Quando smettono di collaborare, Frank si mette in società con un altro italiano, Antonio Valvona. Quest’ultimo sostiene di aver brevettato un sistema per produrre coni gelato nel 1902, cioè prima di Italo. E gli fa causa. È un periodo difficile per l’imprenditore di Peaio. Deve difendersi dall’accusa di plagio e nel 1912 la moglie Elvira muore. «Si risposa un anno dopo con Franceschina Marchioni, una sua parente alla lontana, anche lei di Peaio. Con lei avrà altri quattro figli, due maschi e due femmine», aggiunge Moretta. Quanto alla causa, nel 1913 i giudici danno ragione a Valvona, anche se il suo stampo è ben diverso da quello di Marchioni. «Non è chiaro cosa sia successo dopo. Una figlia di Italo in un suo scritto parla di un ricorso. Comunque è certo che Marchioni prosegue con la sua attività e nel suo claim pubblicitario dice di essere “il più vecchio produttore di coni”». Forse l’errore di Italo è stato quello di non essersi precipitato a brevettare il cono già nel 1896: a mano o con uno stampo, la paternità di quest’oggetto è comunque sua, suo è anche il merito della sua diffusione. Nel 1934 un incendio distrugge la fabbrica di Hoboken, ma l’imprenditore di Peaio non si scoraggia. L’anno successivo, con il sostegno dei fratelli, la ricostruisce. Ma il tempo passa. Italo ha ormai 70 anni nel 1938, quando decide di vendere la sua azienda alla Schrafft’s, celebre produttrice di caramelle. «I suoi figli avevano imboccato altre strade professionali e nessuno voleva proseguire con l’azienda di famiglia», dice Moretta.
La famiglia Marchioni, ormai americana, non è più tornata a vivere ai piedi delle montagne della Valle del Boite, da cui sono partiti Italo, Elvira, Frances. Marco Moretta ricorda di aver conosciuto, da ragazzino, Franceschina, che era venuta una volta in paese dopo la morte del marito, avvenuta nel 1954. Ha anche parlato un paio di volte con la figlia più giovane di Italo e Frances, ormai ultranovantenne, diventata suora saveriana e rimasta a New York. In America vivono anche i numerosi nipoti e pronipoti di Italo. Peaio onora la memoria di questo suo figlio, partito con una valigia di belle speranze e diventato un uomo d’affari di successo, emblema della forza e dell’inventiva di questa gente di montagna.