Archeologia alpinistica nel Bernina dimenticato, lo Sperone Sud-Sud Ovest del Pizzo Sella
Il piacere di salire pareti fuori dai radar degli scalatori contemporanei perché distanti o dai gradi che non fanno “curriculum”. Ma che garantiscono arrampicate senza stress in ambienti davvero solitari


[…] per lo sperone Sud-Sud Ovest, per la bella linea dello spigolo, per la roccia simpatica nelle sue forme e nel suo colore, è un itinerario raccomandabile. Non si possono avere dubbi nella scelta dei singoli passaggi, parecchi dei quali, senza costituire ostacoli o difficoltà veramente gravi, non sono però facili. Se può deludere il tratto inferiore, su per il quale si abbarbicano i cuscinetti cilestrini dell’Eritrichium nanum, nella parte superiore la roccia è sempre buona e ricorda per la sua natura e per la ginnastica che richiede, quella della cresta SO del Monte Scerscen.
La breve e suggestiva descrizione di questa salita, che risale a quasi un secolo fa, racchiude già il senso di una scalata che potremmo definire archeologia alpinistica nel gruppo del Bernina.
Con queste poche, poetiche parole tratte dalla guida CAI-TCI del 1959, affrontiamo una delle dimenticate “linee ardite e forti” che superano il versante meridionale del Pizzo Sella, “piombante” sulla Vedretta di Scerscen inferiore.
Si tratta del lungo sperone salito per la prima volta quasi un secolo fa da Alfredo Corti con Vincenzo Schiavio e Augusto Bonola. Una delle tante salite del barbuto scienziato e alpinista, “imperatore del Bernina” – come lo definirono nientemeno che Renato Chabod e Giusto Gervasutti – maggiore esploratore dei monti valtellinesi del tempo. In lui, la passione per la scienza e l’amore per la natura non furono mai disgiunti da un profondo impegno civile, nella ricerca, nell’educazione e nella difesa dell’ambiente alpino.
Questa salita, al pari di molte altre sparse tra gli aspri e remoti contrafforti rocciosi del Bernina sud, appartiene oggi a un genere dimenticato.
Lunghi avvicinamenti, roccia dubbia, orientamento incerto, difficoltà tecniche modeste che non fanno curriculum: tutto ciò contribuisce a rendere queste salite fuori moda, e per questo ancora più interessanti.
A complicare le cose si aggiunge la necessità di affrontare neve, roccia, ghiaccio, con l’attrezzatura necessaria, il che rende lo zaino pesante, specie in parete.
E poi c’è la regressione glaciale. Cent’anni di arretramento hanno mutato, spesso in peggio, le condizioni, in questo caso, la quasi scomparsa del settore di ghiacciaio alla base ha aggiunto un buon dislivello al pendio che porta all’attacco e dissolto la calotta nevosa sommitale.
Ma tutto ciò ha un grande vantaggio, non si incontra nessuno e la grandiosità di questi ambienti è insuperabile.
I “gradi bassi” vengono ampiamente compensati dalla complessità dell’itinerario, che impone di orientarsi tra canali, torri, diedri e pinnacoli, evitando torrentelli e cascate in questi caldi giorni del solstizio, scavalcando cenge ancora innevate, cercando il passaggio in un paesaggio sempre mutevole.
Man mano che si avanza nel labirinto di micascisti e granodioriti, cresce il rispetto per quei pionieri che si muovevano con naturalezza in questi spazi che oggi, con occhi moderni, potremmo definire orridi, nel senso più selvaggio, remoto e autentico del termine.
Ma se si riesce ad allargare lo sguardo, questi luoghi si rivelano di una bellezza ineguagliabile, e rappresentano un concentrato di alpinismo completo, esigente, silenzioso.
Anche se è ancora presto per la fioritura dell’Eritrichium nanum, da queste salite alpine dimenticate sboccia una grande avventura, tenace e luminosa come quell’azzurro chiaro che resiste tra le rocce e il tempo.