“Gli ottomila al chiodo”: l’Himalaya secondo Simone Moro
L’ultimo libro dell’alpinista (ed elicotterista) bergamasco racconta come sulle grandi montagne dell’Asia l’alpinismo commerciale ha rubato molto spazio all’avventura. Nel farlo, ripercorre la sua straordinaria carriera ad alta quota
La storia dell’alpinismo si può raccontare in molti modi. C’è chi allinea date e citazioni come gli storici che raccontano crisi economiche e guerre, chi costruisce un racconto mettendo insieme scritti di alpinisti e interviste. Solo pochi personaggi, nella storia dell’andar per montagne, possono usare un sistema diverso. Intrecciare il racconto “oggettivo” dell’evoluzione delle tecniche e degli stili con quello delle proprie ascensioni.
Per decenni, il campione di questo modo di raccontare l’alpinismo è stato Reinhold Messner. Nei suoi numerosissimi libri, l’altoatesino ha intrecciato le sue spedizioni con quelle di George Mallory e di altri grandi. Ora tenta lo stesso metodo Simone Moro, autore delle prime invernali di quattro “ottomila” e di molte altre spedizioni importanti.
Fino a oggi, nei suoi libri (tra i più belli Cometa sull’Annapurna e Nanga), l’alpinista bergamasco aveva raccontato le sue imprese, dalla prima invernale del Nanga Parbat a quella del Pik Pobeda, in Siberia. Con Ottomila al chiodo (Rizzoli, 200 pagine, 20 euro), invece, imbocca la via già seguita da Reinhold. E racconta l’evoluzione dell’alpinismo himalayano degli ultimi decenni intrecciandola con le proprie ascensioni più importanti.
Cuore del libro, dalla prima all’ultima pagina, è la sostituzione, sull’Everest e sugli altri giganti della Terra, dell’avventura ad alta quota (di cui Simone è un protagonista) con l’alpinismo commerciale. Un mondo “fatto al 99,99 per cento di clienti che si rivolgono ad agenzie di trekking per organizzare spedizioni, esattamente come ce ne sono che organizzano safari e crociere. Fino a vent’anni fa”, prosegue Simone, “era quasi inconcepibile che qualcuno potesse violare con delle regole quella grande oasi di libertà che è l’alpinismo. Pensate solo all’ipotesi di obbligare un Messner a usare l’ossigeno!”
Dalle parole di Simone Moro, si vede che i due mondi non comunicano più. “Qualche tempo fa, al campo-base di una spedizione commerciale, il cliente di un’agenzia mi ha chiesto: tu, che sei ormai famoso, perché continui a fare spedizioni in inverno e senza ossigeno? Perché fai queste spedizioni low budget? Non hai i soldi per pagarti la guida e l’ossigeno?”
Tra i momenti-chiave di questa trasformazione, Moro cita la tragedia del 1996 sull’Everest, con i suoi otto morti tra cui le guide Rob Hall e Scott Fischer, o le lunghe code verso la cima del “Tetto del mondo” in molte annate del nuovo millennio.
Grazie alla sua esperienza, l’autore inserisce nell’elenco il 2011 quando Mingma Sherpa, nato ai piedi del Makalu, diventa il primo nepalese a salire i 14 “ottomila”, e grazie a questo, insieme al fratello Dawa, riesce in pochi anni a trasformare la Seven Summit Treks nell’agenzia leader del mercato delle spedizioni con guide e clienti paganti.
“La sua rivoluzione non fu solo commerciale ma anche sociale”, spiega Moro. “Messi da parte il timore reverenziale e la sudditanza psicologica verso gli occidentali, gli Sherpa stavano diventando più indipendenti sia a livello manageriale sia imprenditoriale”.
Hanno una responsabilità nella trasformazione anche i record strampalati che trovano spazio nel Guinness dei primati, e le regole sempre più stringenti imposte alle spedizioni dai governi del Nepal e della Cina. “”Solo in Pakistan, al momento, l’alpinismo è ancora libero”, chiosa Simone Moro già a pagina 12 del libro.
“Già vedo all’orizzonte chi tenterà il record “casa-casa”, facendo ricorso legittimo a tutti gli aiuti disponibili, Xenon incluso” scrive Simone verso la fine del libro. Quando le bozze del libro sono andate in stampa, il record dei quattro inglesi che avevano inalato quel gas era stato annunciato ma non ancora stabilito. La profezia di Moro, forse facile, mostra l’attenzione dell’autore.
Di fronte al mondo del business e delle masse “imbombolate”, Simone fa un lungo elenco di uomini e donne che continuano a vivere l’Himalaya ad armi pari. Un elenco che inizia con Anatolj Boukreev e Denis Urubko, i due grandi alpinisti ex-sovietici con i quali Moro ha condiviso momenti importanti, e prosegue con Ueli Steck, Valerij Babanov, Tomaž Humar, Rick Allan, Sandy Allen, Nives Meroi, Romano Benet, Alex Txikon e tanti altri.
Hanno spazio nel libro gli exploit compiuti dall’autore, a iniziare dal 1994, quando in un solo anno riesce a liberare un 8b nella falesia di Cornalba e a salire il Lhotse senza ossigeno, fino alla prima traversata (2006) dell’Everest dal Nepal alla Cina, conclusa con meno problemi burocratici del previsto, grazie “alla comprensione e alla bontà sorprendenti” incontrate all’arrivo nel campo-base tibetano di Rongbuk.

C’è anche il dolore, ovviamente, perché Simone sa bene che “l’alpinismo esplorativo e romantico” implica anche accettare che tra i rischi ci sia “quello di non tornare a casa”. Lo scopriamo leggendo (o rileggendo) della valanga che nel 1997 uccide Anatolj Boukreev e Dimitri Sobolev sull’Annapurna, e del soccorso all’inglese Tom Moores sul Lhotse che costa a Simone la rinuncia alla traversata verso l’Everest.
Lo scopriamo anche leggendo dell’assalto con pugni e sassate compiuto nel 2013 da un gruppo di Sherpa al campo 2 dell’Everest, e che sarebbe potuto costare caro all’autore del libro, a Ueli Steck e a Jonathan Griffith.
Simone racconta di aver scelto di minimizzare, impedendo che i più violenti fossero arrestati e incarcerati. E che, qualche giorno più tardi, dopo aver soccorso con il suo elicottero a 6800 metri uno Sherpa ferito da una scarica di sassi, si è accorto di aver salvato la vita a uno dei facinorosi.
Già, gli elicotteri. Simone, che negli anni è diventato uno dei piloti più abili nel volo ad altissima quota, non teme di difendere il mezzo che padroneggia e che ama. In Nepal, il tempo ha dimostrato che gli elicotteri sono fondamentali, anche per “offrire passaggi gratuiti ai nepalesi in difficoltà”.
In Italia, prosegue Moro, “possiamo permetterci di limitarne l’uso in montagna, ma è un errore considerarlo come fonte principale di inquinamento”, se non altro perché da noi “ci sono meno di mille elicotteri, mentre le automobili sono circa sessanta milioni”. Forse non tutti saranno d’accordo. Ma a Simone si possono chiedere un 8b in falesia, un “ottomila” d’inverno e un soccorso a 7000 metri in long line, ma non di non dire (o non scrivere) quel che pensa.