A tu per tu con Alberto Iñurrategi
L’alpinista basco che completò nel 2002, a soli 33 anni, la collezione dei 14 Ottomila si racconta. E pone l’accento sull’importanza del fallimento
“La vetta non è altro che una delle possibilità. Ciò che è davvero essenziale è il cammino: come ci avviciniamo, come lo affrontiamo, come scendiamo e come lo raccontiamo”. Parole di Alberto Iñurrategi, il grandissimo scalatore basco, ospite della rassegna “A tu per tu con i grandi dello sport” organizzata da DF-Sport Specialist.
Pubblico decisamente incuriosito e partecipe per una serata dal titolo inusuale. “Elogio del fallimento” ha saputo toccare in profondità, alternando immagini spettacolari, racconti intensi e riflessioni autentiche sul significato dell’avventura in montagna. Iñurrategi ha condiviso con i presenti la sua visione dell’alpinismo come esperienza totale, in cui anche il fallimento diventa un elemento essenziale del cammino. Tutti, nel loro piccolo, si sono rivisti in questo alpinista straordinario ma, nel contempo, così normale e umano. Uno che sbaglia, anche, e che torna indietro. Uno che non ha paura ad ammetterlo e che, se ancora è vivo, forse lo deve anche un po’ a questo. Oltre alle abilità, naturalmente, e a una certa dose di fortuna. Uno che la morte l’ha però vista da vicinissimo, assistendo a quella del fratello.
Classe 1968, Alberto Iñurrategi nel 2002 è stato il più giovane alpinista, a 33 anni, a completare la scalata di tutti i 14 Ottomila senza l’uso di ossigeno supplementare o l’aiuto di sherpa. Un alpinismo che gli ha dato tanto, ma che ha anche preso. Nel 2000 l’alpinista ha assistito alla scomparsa del fratello Félix, compagno di spedizioni e di vita, sul Gasherbrum II. A tal proposito, il documentario “Hire Himalaya”, è dedicato proprio al fratello e premiato a livello internazionale.
Abbiamo approfittato dell’occasione per fare qualche domanda all’alpinista:
A che età ha avuto il primo contatto con la montagna, come e qual è stato il suo approccio all’alpinismo?È successo così tanti anni fa che è possibile che si tratti di una versione idealizzata. Diciamo che all’età di 15 anni, una volta capito che nel calcio non avrei avuto un posto oltre la panchina, come molti giovani, ho iniziato ad arrampicare. Il mio primo contatto con l’arrampicata non è stato diverso da quello di tanti altri: con amici che facevano un po’ di tutto, speleologia, arrampicata e alpinismo, ho scoperto il brivido di arrampicare dove fino ad allora sembrava impossibile, il brivido della caduta… La passione totalizzante per la montagna è nata più tardi, dopo la mia prima visita ai Pirenei nel 1987.
Ha completato i 14 ottomila a soli 33 anni, in stile alpino: cosa l’ha spinta a scegliere questo approccio essenziale e impegnativo?
Quando ho iniziato con gli Ottomila, in Himalaya, avevo pochissima esperienza e un approccio non così essenziale, scalavo senza neppure avere il tempo di fermarmi a pormi domande su quale fosse il mio stile. Le prime cime sono state fatte in stile tradizionale: campi prestabiliti, corde fisse… Man mano che accumulavo esperienza e conoscevo meglio le mie capacità ho iniziato a sperimentare approcci più leggeri, ma non si può dire che io abbia fatto tutte le 14 in stile alpino.
Tra tutte le montagne che ha scalato, ce n’è una che l’ha segnata più profondamente, nel bene e nel male?
Purtroppo ce n’è una che ha segnato la mia vita e la mia carriera di alpinista. Sul Gasherbrum II ho perso mio fratello e il mio compagno di cordata di ogni salita fino a quel momento.
Quanto è cambiato l’alpinismo da quando ha iniziato e come vede le nuove generazioni di scalatori?
I cambiamenti sono molto visibili e riguardano molti aspetti; ora noi scalatori abbiamo orari, comunicazione in caso di necessità, materiali evoluti e più specifici, informazioni, facilitazioni nel contrattare e gestire i diversi servizi, durata dei viaggi…
C’è ancora spazio per l’alpinismo esplorativo e, se sì, dove?
A volte, per circostanze diverse, pensiamo che il mondo sia piccolo, ma anche così, e nonostante le immagini che ci arrivano da alcune montagne, tutte le catene montuose hanno spazi poco frequentati, cime che non contano salite o pendii non scalati. Parlare di esplorazione ai tempi di Google Earth può sembrare un po’ pretenzioso, ma chi cerca l’avventura al massimo grado non avrà problemi. E anche la scoperta di sé può essere vista come un modo di esplorare.
“Elogio del fallimento” è una metafora della vita? Quale è il senso ultimo del fallimento secondo te?
Si tratta di intendere la rinuncia dovuta a mancanza di preparazione, approccio sbagliato, decisioni errate o sfortuna come un’opportunità per imparare, migliorare e crescere. Fallire significa, in un certo senso, avere la possibilità di imparare.