“Prendersi cura”: riflessioni sulla professione di guida alpina
Non solo tecnica e performance per rendere appagato il cliente. Il ruolo del professionista della montagna dovrebbe andare ben oltre. Come spiega proprio una guida alpina




È una domanda che accompagna ogni passo. La cura è un gesto quotidiano, spesso invisibile, che passa attraverso l’attenzione ai dettagli, la qualità della presenza, la capacità di ascolto. Non è un’aggiunta alla professione, è il suo fondamento. Non ci si prende cura mediante la tecnica, ma attraverso un modo consapevole e umano di usarla.
La guida non è soltanto chi conduce. È chi accompagna con rispetto e empatia, chi abita i luoghi con consapevolezza, chi lascia spazio all’imprevisto senza perdere lucidità, chi trasmette fiducia non con l’infallibilità, ma con l’autenticità. In questo senso, la cura è anche un modo di disinnescare modelli dominanti fondati sulla prestazione, sull’efficienza, sulla ripetizione seriale delle esperienze.
Viviamo un’epoca in cui anche la montagna rischia di diventare un prodotto da consumare. La guida diventa fornitore, il cliente utente, l’escursione un servizio. Ma in questa logica si perde qualcosa di essenziale, il carattere vivo, irripetibile, relazionale dell’andare in montagna.
La cura, al contrario, apre spazi di libertà. È uno sguardo che rifiuta le soluzioni preconfezionate, che accetta il tempo necessario all’ascesa, il dubbio, il limite, che rinuncia a promettere la vetta a tutti i costi, per restituire dignità al cammino stesso, anche se non porta dove previsto.
Tecnica e presenza, un equilibrio delicato
Conoscere e usare bene gli strumenti è indispensabile. Ma quando la tecnica prende il sopravvento sulla relazione, svanisce la possibilità di ascolto. La guida si trasforma in operatore, la montagna in un teatro di manovre.
La cura si manifesta anche nella scelta consapevole della misura: sapere quando intervenire e quando no, quando parlare e quando lasciare spazio al silenzio. È una competenza silenziosa, che si affina con il tempo e che richiede la capacità di stare nel non-controllo senza smarrire il senso.
Anche le guide hanno bisogno di cura
Prendersi cura degli altri implica anche saper avere cura di sé. Il mestiere di guida è totalizzante, fisicamente ed emotivamente. Espone a rischi, responsabilità, solitudini. Eppure, spesso, mancano spazi di elaborazione, confronto, condivisione tra pari. Praticare la cura significa anche uscire dall’autoreferenzialità, smettere di pensarsi come figure isolate e autosufficienti.
Riconoscere i propri limiti, la fatica, la fragilità non è segno di debolezza, ma atto di responsabilità. È da lì che nasce una pratica più autentica, più sostenibile, più umana. Perché nessuno può accompagnare davvero, se prima non ha imparato a tornare verso di sé.
Una professione che è anche gesto politico
Essere guida, oggi, è anche una scelta culturale. Significa decidere come si sta nei luoghi, quali parole si usano per raccontarli, quali esperienze si costruiscono con le persone. Significa, a volte, disattendere le aspettative del mercato, rifiutare l’omologazione, difendere la complessità.
Solo così, dopo due secoli di storia, la guida può ritrovare la propria autorevolezza. Non per arroccarsi, ma per distinguersi nel caos crescente di nuove figure professionali e insolite forme associative, che promettono accompagnamento e avventura dappertutto. Solo così si può tornare a guidare – nel senso profondo del termine – invece di inseguire modelli imposti dall’esterno, spesso omologanti.
La guida alpina, nella sua forma più compiuta, è mediatore culturale (non esclusivo), interprete di un mondo naturale incerto e variabile come quello delle alte montagne, voce di un sapere tecnico, esperienziale e umano. Esercitare la professione significa quindi anche adempiere a una funzione di utilità collettiva, propria delle professioni ordinistiche: restituire senso, orientamento e visione a chi si affida.
La comunicazione che accompagna la professione non dovrebbe rincorrere promesse di sicurezza preconfezionate o grida pubblicitarie da “avventura chiavi in mano”, né basarsi sul solito ricorso a tecniche, attrezzature e competenze come se fossero soluzioni magiche. Queste garanzie, spesso sventolate come bandiere, rischiano di ridurre la montagna a un pacchetto turistico in cui la vera esperienza, quella che unisce relazione e rispetto, svanisce. Essere guida significa invece rifiutare il marketing facile e tornare a un ruolo autentico, essere mediatori di un mondo imprevedibile e non sempre controllabile.
Non si tratta di vendere un prodotto o di costruire illusioni, ma di mantenere viva e autentica l’esperienza, il sapere e la relazione, nel rispetto dei luoghi e delle persone. Perché ogni gesto guida non solo un corpo, ma anche un immaginario. E immaginare altri modi di andare in montagna – più liberi, più rispettosi, più veri – è già un modo di prendersene cura.