Avevamo lasciato, nella scorsa puntata, gli alpinisti ai quasi 7mila metri dell’ultimo campo. Esausti dal primo tentativo fallito di assalto alla vetta del Broad Peak. Il giorno seguente è tempo di discesa al base. Il tempo è brutto e di tentare a breve non se ne parla.
Ci vorrà qualche giorno prima di rivedere il sereno ma, non appena il sole fa capolino, ecco la partenza. In due giorni di cammino i quattro sono di nuovo ai 6.950 metri di campo 3. Stanchi e con poche riserve d’acqua. Ma decisi a tentare il tutto per tutto.
Alle 2.30 il rituale della partenza. Vestiti, scarponi e colazione. E il gelo che attanaglia e penetra nelle ossa. La parete è ostica, tratti di neve dura e compatta si alternano al ghiaccio vivo. La temperatura si aggira sui meno trenta e le dita dei piedi rispondono sempre di meno ai comandi del cervello.
Finalmente, alle 8, dopo oltre 4 ore di sofferenza, compare il sole, a riscaldare un poco i corpi ormai debilitati. Il più colpito sembra essere Buhl, la circolazione si riattiva a stento e l’austriaco non sembra in buone condizioni.
Per di più Schmuck e Wintersteller seguitano a confermare i dissidi con l’artefice della spedizione e continuano per conto loro. Accecati dall sete della vetta.
All’una e mezza Buhl e Diemberger sono alla sella dei 7.800 metri sulla neve che divide la cima intermedia da quella principale. Hermann è quasi allo stremo e si trascina sui piedi che ormai non sente quasi più.
Una pausa, poi un’altra, e una ancora più lunga. Un farmaco, qualcosa da mangiare. Ma sono tutte soluzioni transitorie. Alle 16 mancano ancora 150 metri di dislivello, e la vetta sembra lontanissima.
Buhl è costretto a rinunciare, si siede nella neve e lascia che Diemberger parta da solo per il suo tentativo. Lo aspetterà fino alla discesa, nel frattempo. Mollato il compagno il giovane Kurt forza l’andatura.
E alle 17.30 è in vetta. In tempo per trovare i due fuggitivi che si apprestano a ridiscendere. La giornata è stupenda e la vista spazia dal k2 al lontano Nanga Parbat, alla punta del Masherbrum e allo spettacolare tetto di ghiaccio del Chogolisa.
Inutile tentare di descrivere l’emozione che lo pervade. Emozione che però, a detto dello stesso, sembra essere incompleta. Manca qualcosa, o meglio, qualcuno.
Qualche foto con la consapevolezza che il giorno sta volgendo al termine, e i preparativi per la discesa. Ma dopo qualche metro, guardando verso il basso, Kurt scorge un puntino che avanza lento nella neve. Incredibile, è Buhl! Con immensa fatica e incurante del fatto che tra non molto sarà l’oscurità a regnare sovrana.
Lo stupore e la gioia sono immensi. Ormai il giovane Diemberger nutre una sorta di venerazione per il forte austriaco e, una volta insieme, si appresta con lui a ritornare sulla cima.
E così la sera della domenica di Pentecoste, il 9 luglio 1957, nell’ultima luce del giorno Hermann Buhl e Kurt Diemberger sono in vetta al Broad Peak. A stringersi la mano mentre attorno a loro solo la neve sfavilla e il giorno piano piano si perde nel buio della notte.