FilmNews

Eliza Kubarska racconta la “sua” Wanda Rutkiewicz

La regista polacca racconta il suo viaggio nella storia della grande alpinista scomparsa nel 1992 sul Kangchenjunga. Documenti, ricordi e un’ipotesi estrema: e se la Rutkiewicz ancora viva, si fosse volutamente ritirata in un convento himalayano?

La climber e regista Eliza Kubarska ha iniziato sette anni fa a immaginare un film-documentario su Wanda Rutkiewicz, la straordinaria alpinista polacca scomparsa il 13 maggio 1992 a 49 anni mentre tentava la salita al Kangchenjunga. 

Nel 2017 Kubarska si trovava infatti in Nepal per le riprese del suo film dedicato al mondo degli sherpa (The Wall of Shadows), quando capitò anche nell’ultimo villaggio ai piedi della montagna dove Wanda aveva fatto tappa prima della salita fatale.

Non solo vi conservavano ancora uno dei suoi barili da spedizione, ma si ricordavano ancora molto bene di lei, “la donna polacca alta e con i capelli mossi che voleva essere la prima donna a scalare il Kangchenjunga a da lì non aveva più fatto ritorno”. A Wanda, al suo travagliato temperamento e al “mistero” della sua scomparsa, Kubarska ha dedicato il lungometraggio L’ultima spedizione. Il mistero di Wanda Rutkiewicz.

Incontriamo Eliza a Lubiana, dove ha presentato il suo lavoro al Festival Gorniškega Filma organizzato da Silvo Karo. Il film, che al Festival di Lubiana ha vinto il primo premio come miglior film nella categoria Alpinismo, restituisce un ritratto originale di Wanda Rutkiewicz.

E’ uno straordinario documento che porta alla luce materiale d’archivio in parte noto e raccolto nelle teche della televisione e della radio polacca e di area germanica, in parte totalmente inedito, perché conservato negli ultimi anni solo dai familiari della Rutkiewicz, dal momento in cui il suo appartamento venne venduto.

Cosa ti ha spinta a realizzare questo progetto su Wanda Rutkiewicz?
L’ho fatto perché sono donna, sono polacca e arrampico, come lei. So di Wanda fin dalla mia infanzia, perché quando ero piccola lei era incredibilmente famosa in Polonia. E poi mia madre, che non era nemmeno una sportiva, me ne parlava sempre come esempio di donna forte e libera, che lottava per la sopravvivenza in una Polonia ancora comunista. Era diversa, viaggiava in un’epoca in cui da noi non era possibile farlo e inseguiva i propri sogni.

Wanda Rutkiewicz è ancora oggi una una sorta di modello/mito per molte donne polacche?
Sì, soprattutto per la sua emancipazione. Ma anche per il suo stile. Aveva ricevuto una buona formazione, finì in anticipo gli studi e poi si dedicò a matematica e informatica, conosceva quattro lingue, era bella e si esprimeva ai microfoni e davanti alle telecamere come una star. 

Quando Wanda scomparve avevo quattordici anni, tre anni dopo iniziai per caso ad arrampicare, poi, come lei, ho costruito la mia strada portando avanti le mie passioni e dopo l’Accademia di Belle Arti ho iniziato a lavorare come fotografa viaggiando e arrampicando, fino a quando ho deciso di iniziare a raccontare storie.

Nel raccontare della sua scomparsa, oltre a tenere in considerazione l’ipotesi più logica, ovvero che il suo corpo giaccia da qualche parte sul Kangchenjunga, contempli quella più “romantica” che lei sia ancora viva, e nascosta in qualche monastero
La madre di Wanda non ha mai creduto che lei fosse davvero morta, anche perché era stata lei stessa a dirle che se non avesse fatto ritorno sarebbe stato per ritirarsi in un convento femminile. Due anni dopo la sua scomparsa affrontò gli altri due figli in tribunale, perché volevano vendere l’appartamento di Wanda, facendo leva sul fatto che il suo corpo non era stato trovato.

Ho visitato diversi conventi. Ci hanno accolti apertamente con la videocamera, ed è stato molto forte l’incontro con Tenzing Palmo, una britannica della stessa età di Wanda (che si vede nel film, ndr) che ha vissuto dodici anni ritirata in una grotta in Himalaya: una persona felice e carica di energia che mi ha confermato quanto fosse facile riuscire a nascondersi in questo modo negli anni Novanta. 

Alcune donne occidentali lo hanno fatto. Chi conosceva bene Wanda dice che è impossibile che con il suo temperamento potesse fare una scelta del genere. Ma io, che ho visto con i miei occhi questi luoghi, non sono religiosa e non sarei capace di stare ferma, lo credo possibile.

Nel tuo film emerge il ritratto di una donna molto forte e anche molto organizzata nel lasciare testimonianza di sé, nel raccontarsi
Sì sarebbe benissimo potuta essere una moderna influencer. Nell’archivio privato esistono ore e ore di registrazioni su vari formati video e audio. Aveva iniziato a documentare sé stessa e i propri pensieri fin dalla prima spedizione. 

Questi materiali occupano come consistenza fisica un’intera stanza e ora si trovano a casa mia: la sorella di Wanda me li ha affidati perché alla morte del fratello non avevano più spazio per custodirli. 

Grazie alla collaborazione con una produzione polacca di documentari e lungometraggi (WFDiF, che è diventata co-produttrice del mio film) si sta facendo un grande lavoro di “salvataggio” digitale di questi materiali, con i quali vorrei realizzare una mostra internazionale. Anzi approfitto per lanciare un appello per trovare una possibile collaborazione per poterla realizzare.

Nel film sottolinei il cosiddetto “processo dell’Annapurna”, riferendoti a quando nel 1991 i colleghi alpinisti polacchi dubitarono del fatto che Wanda avesse raggiunto la cima di quella montagna. Pensi che ci sia stato un rapporto di causa-effetto nel suo equilibrio psicologico e nelle sue scelte di provare a raggiungere a tutti i costi la cima del Kangchenjunga?
Senza dubbio sì. Wanda lo chiama “processo di disintegrazione”. Wanda senz’altro raggiunse la cima dell’Annapurna, ed è anche facile provarlo. Il fatto è che la falsa notizia che lei avesse mentito sull’effettivo raggiungimento della vetta arrivò in Polonia prima che lei atterrasse. E infatti trovò solo un paio di amici ad accoglierla. Si sa che quello che dice la comunità degli alpinisti può avere conseguenze molto alte sulla tua credibilità. 

Lei si sentì in qualche modo spinta a dover dimostrare a tutti i costi qualcosa?
Ne sono assolutamente convinta. Tre mesi dopo l’Annapurna è ripartita per il Kangchenjunga per proseguire il suo progetto Caravan to Dreams, e la sua libertà consapevole di decidere quanto rischiare è stata condizionata dal bisogno di dimostrare a tutti i costi qualcosa. Nessun alpinista dovrebbe andare in montagna in quello “state of mind” – lo dico perché ho provato una situazione molto simile, che per anni mi ha annientata – e così lei si è assunta dei rischi troppo alti, con conseguenze irreversibili.

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close