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Rifugio “Mantova” al Vioz: la fragilità del presidio più alto delle Alpi Orientali

A tu per tu con Mario Casanova, appena tornato dal Lhotse, che ai 3.535 metri del Vioz trascorre le estati da 45 anni. Tanto amore, ma non mancano le preoccupazioni per il futuro

Con i suoi 3.535 metri di quota a picco sull’Alta Val di Pejo il rifugio “Mantova” al Vioz, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, è il più alto delle Alpi orientali. Va da sé che per raggiungerlo occorre essere sufficientemente allenati. Mentre si percorre il sentiero, costante e curato, è inevitabile pensare a chi, durante il primo conflitto mondiale, ne solcava le tracce con tutt’altro spirito ed equipaggiamento. Il rifugio si trova infatti ad un centinaio di metri da uno dei centri nevralgici del fronte occidentale: Punta Linke, dove un vastissimo sistema di baracche e apprestamenti è stato perfettamente conservato dal ghiaccio, trasformandosi in un autentico museo a cielo aperto.

Il rifugio stesso fu inaugurato qualche anno prima della Grande guerra, nel 1911, dalla sezione di Halle del Club Alpino austro-tedesco. Per la costruzione furono impiegati ben quattro anni di travagliati lavori, al netto di condizioni meteorologiche spesso avverse. A onor del vero, il primo rifugio sul monte Vioz fu costruito nel 1908 dalla Società Alpinisti Tridentini, ma in una posizione molto più bassa rispetto a quello attuale. Mentre dunque il rifugio “tedesco” fu utilizzato per scopi bellici, quello della Sat venne distrutto in maniera irreparabile. Alla fine del conflitto, il Vioz fu requisito dalle autorità italiane come bottino di guerra ed affidato proprio alla Sat in qualità di indennizzo per l’altro rifugio perduto. Fu così che dal 1947 la struttura risulta assegnata definitivamente alla Sat «e in gestione alla mia famiglia dal 1958». 

Al Vioz da quando aveva 9 anni

A pronunciare queste ultime parole è Mario Casanova, alpinista e soccorritore trentino, classe 1970, che vive lassù le proprie estati da quando di anni ne aveva 9, dapprima al seguito degli zii e del padre e poi, dal 1991, in autonomia, aiutato dalla compagna e dal figlio.

«Quando eravamo bambini, – racconta Casanova – io e miei fratelli subivamo il fascino dei segni lasciati dalla guerra e con la scusa di esplorare i dintorni abbiamo cominciato a frequentare sempre di più le montagne dietro quella che, in pratica, era diventata la nostra seconda casa».

Già a 13-14 anni iniziano dunque le prime traversate di Mario, dal Vioz al rifugio Cevedale oppure dal Vioz al Monte San Matteo: si trattava in buona sostanza di un inconsapevole preludio alle esperienze alpinistiche che, negli ultimi dieci anni, l’hanno portato per ben quattro volte in Himalaya, fra le cime più alte del pianeta. «A 18 anni sono entrato nel Soccorso Alpino e Speleologico Trentino, – prosegue Casanova – un’esperienza che ha arricchito il mio approccio alla montagna aggiungendovi competenze di roccia e arrampicata, nonostante il mio terreno prediletto sia sempre rimasto l’alta quota».

Un’alta quota che qui, al Vioz, si respira non soltanto nell’aria più rarefatta ma anche nei racconti di chi vi giunge o transita, attratto proprio dalla quota estremamente allenante in vista delle spedizioni extraeuropee.

«Con il tempo, – aggiunge Casanova – questi racconti non solo mi hanno ispirato, ma hanno contribuito ad indicarmi la via, lastricandola di consigli. Furono soprattutto le parole di Sergio Martini e poi Marco Confortola a darmi il coraggio necessario per mettermi alla prova sulle vette più alte del mondo».

Via libera dunque al primo ottomila della carriera: il Dhaulagiri nel 2017, proprio con il fuoriclasse valtellinese Marco Confortola. Due anni dopo fu la volta dell’Annapurna, con Sebastiano Valentini, e del Manaslu, insieme a Massimiliano Gasperetti, Gianfranco Corradini, Stefano Pedranz e Renato Mariotti. Infine, proprio lo scorso aprile, Casanova ha compiuto l’ascesa del Lhotse, insieme a Silvestro Franchini. Soddisfazioni grandi, con un occhio già alla prossima sfida, che Mario però non vuole ancora rivelare.

Un futuro incerto

Intanto, il rifugio Vioz è nel pieno della sua stagione estiva, al netto di qualche riflessione dolceamara sul destino di questi presidi, tanto preziosi quanto fragili. «Il Vioz lo si raggiunge soltanto in elicottero o a piedi, – spiega infatti Casanova – e non c’è modo di effettuare l’approvvigionamento con una qualsivoglia teleferica. Tutto è pertanto più lento e faticoso e lo sarebbe anche nel caso di un’eventuale ristrutturazione».

L’ultima, in ordine di tempo, fu eseguita nel 1996, quasi trent’anni fa. «È fisiologico che la struttura necessiti con il tempo di alcuni aggiustamenti – continua Casanova – e la mia preoccupazione più grande è quella, proprio in forza della mole di lavoro e di fatica che essi richiamano, di andare incontro ad un progressivo abbandono: che il rifugio, cioè, si trasformi in un bivacco e che perda il suo ruolo così peculiare di presidio per questa montagna».

Tornando a valle, le parole di Mario risuonano prepotentemente in testa: perdere un rifugio, a queste quote, significa non soltanto perdere un presidio, ma perdere anche il sentiero che a quel rifugio porta, la cura con il quale è segnato e l’attenzione con cui occorre percorrerlo. Significa, insomma, perdere il paesaggio e perdere chi a quel paesaggio è legato, dal bambino curioso di 9 anni all’alpinista affermato di 54. Che, in fondo, sono la stessa persona. 

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