AlpinismoGente di montagna

A tu per tu con Leo Gheza, appena tornato dalla Yosemite del Sud America

Dal granito della sua amata Val Salarno fino al Cile, dove l’atleta del team Salewa ha appena aperto una nuova via sul Cerro Trinidad. Una vita dedicata alla montagna. Anche vista dal parapendio

Classe 1991, atleta del gruppo Salewa People, Leonardo “Leo” Gheza è originario e vive in Valle Camonica, in provincia di Brescia. Alpinista e accademico del CAI, da qualche anno ha scelto di dedicarsi anima e corpo alle montagne. Come scritto anche sul suo sito personale “Una vita è troppo corta per perdere tempo”, ed effettivamente Gheza questa vita pare davvero mangiarsela.

Gheza ha iniziato ad arrampicare “solo” a 17 anni quando ha indossato per la prima volta le scarpette nella falesia di Cividate Camuno. Un amore subito travolgente, che lo ha portato a bruciare le tappe passando dalle prime vie in montagna alle classiche ascensioni alla scoperta della storia dell’alpinismo, dalla relativa sicurezza dell’arrampicata sportiva all’irresistibile fascino di quell’arrampicata che richiede l’utilizzo di protezioni veloci sulle pareti più impegnative del mondo.

Non solo roccia per Gheza, ma anche vie di ghiaccio e di misto con l’obiettivo di diventare un alpinista versatile e capace di progredire su ogni tipo di terreno. E poi anche il volo. Sì, perché tra le discipline che Leo ama c’è anche il parapendio, che a detta sua è l’espressione massima della libertà: “scalare e poi decollare è qualcosa che mi dà tantissimo”, dice.

California, Utah, Colorado e Nevada negli Stati Uniti, Nepal, Pakistan e Patagonia. La sua ultima spedizione si è conclusa proprio il mese scorso nella Cochamò Valley, in Cile, la Yosemite del Sud America. Qui Gheza, insieme a Angelo Contessi e Diego Diaz, ha aperto la nuova via “Nunca Say Nunca” sul Cerro Trinidad Central (5.12+ / A1 / 1000 mt), la montagna simbolo della vallata di Cochamò, di cui il trio ha già liberato quasi tutti i tiri…

Partiamo dalla tua ultima spedizione al Cerro Trinidad: come mai non avete provato a liberare tutti i tiri?

Quella che è uscita sul Trinidad è una bella big wall di 1000 metri. Siamo riusciti ad aprirla scalando dal basso, pulendo i tiri e liberandoli man mano che salivamo. Tutti tranne due, abbastanza duri ma fattibili. Purtroppo non abbiamo avuto il tempo fisico per tornare a provare a liberarli tutti visto che dovevamo rientrare. C’era un volo prenotato che ci attendeva e difficile da spostare. Sarà la “missione” di chi verrà per ripeterla.

Di tutti i luoghi che hai visitato, ne hai uno prediletto?

Non ho un luogo preferito. In un certo senso li ho amati tutti perché tutti, a loro modo, hanno qualcosa da offrire, che siano la cultura, le persone o, naturalmente, l’ambiente e le montagne, che poi sono la motivazione principale che sta dietro a una spedizione. Se proprio dovessi sceglierne uno, credo potrebbe essere la Patagonia. Credo sia il luogo che mi è rimasto più nel cuore e forse quello che preferisco per svariate motivi principalmente legati alla scalata: il bel granito, le condizioni difficili e montagne che sono esteticamente forse tra le più belle del mondo, almeno per me!  Ci sono stato, per ora, quattro volte e sicuramente tornerò.

Ti impegni per diventare un alpinista il più poliedrico possibile, ma se dovessi seguire il tuo cuore quale tra le diverse attività legate alla montagna sceglieresti?

Domanda molto, molto difficile! Essere polivalente mi piace e mi stimola. La sfida del sapersi adattare alle diverse condizioni del terreno e agli imprevisti mi piace su ghiaccio come su roccia. Credo sia proprio il fatto di cambiare a tenere alta la mia motivazione.

Quando e come hai capito che volevi dedicare la tua vita all’alpinismo?

Ho sempre praticato sport, fin da quando ero bambino. I miei avevano una palestra e mio papà ha sempre fatto gare di judo, io stesso ho praticato judo fino a 17 anni, poi mi sono rotto il crociato e da lì qualcosa è cambiato. Avevo già provato a scalare e non mi dispiaceva, ma dopo l’incidente l’arrampicata ha iniziato a prendermi sempre più e ho deciso di dedicarmi solamente a questa. Dapprima in falesia e poi, non troppo tempo dopo, in montagna. Ho sempre visto la falesia come un allenamento in preparazione di qualcosa di più grande, le pareti delle montagne appunto. Neanche a farlo apposta, con il papà, lavoravo a Cividate Camuno proprio a 500 metri dalla falesia e questo mi ha aiutato molto perché era un attimo staccare dal lavoro e mettere le mani sulla roccia.

Scalare è bello, ma bisogna pur mangiare. Cosa fai nella vita di tutti i giorni?

Esatto, bisogna comunque lavorare per vivere. Al momento mi dedico ai lavori su fune e in ambito edile, lavorando il giusto, cioè tanto quanto mi è necessario in termini di tempo così come di denaro per coltivare in parallelo la passione per la montagna.

Hai scalato con tanti compagni di cordata. Come scegli gli alpinisti con cui affrontare una spedizione?

I miei compagni di cordata sono innanzitutto amici, con i quali ci si conosce da anni. I progetti solitamente vengono ideati insieme, spesso mentre si è in falesia a scalare. Se ne parla, ci si ragiona, si valuta la fattibilità, ovviamente non solo a livello tecnico ma anche i costi, e se poi tutto va come deve… si organizza il viaggio e via. Le esperienze di spedizione sono molto intense e spesso rafforzano, rendono ancora più profondo e autentico quel rapporto di amicizia che già c’era.

Alpinista e accademico dei CAI… a quando il corso per diventare guida alpina?

Ho preso in considerazione più volte l’ipotesi di affrontare il corso, anzi i corsi, per diventare guida alpina e confermo che mi piacerebbe. Al momento però preferisco sfruttare il buono stato di forma per dedicarmi alle spedizioni anche perché, lo so perfettamente, l’intero percorso è impegnativo in termini di tempo oltre che parecchio costoso. Ma è una possibilità che vorrei prendere in considerazione in futuro. Così come lavorare con il parapendio, l’altra mia passione, visto che sono in procinto di prendere il brevetto per il biposto.

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