A guardarli su una mappa geografica, la Valsesia e il Nebraska sembrano due mondi opposti. Da una parte borghi e cittadine ricchi di storia, un fiume che serpeggia ai piedi delle Alpi, i ghiacciai del Monte Rosa sullo sfondo. Dall’altra le infinite pianure agricole del cuore degli Stati Uniti d’America, le anse del fiume Platte, i silos dei missili a testata nucleare installati durante la Guerra Fredda.
A legare i due mondi è Paolo Cognetti, lo scrittore milanese che è diventato famoso nel 2016 con “Le otto montagne”. Un romanzo che ha ottenuto il Premio Strega e molti altri riconoscimenti, e che è tornato sotto ai riflettori un anno fa grazie al film dei belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, che ha avuto un grande successo nelle sale.
Il libro e la pellicola mostrano una Valle d’Aosta aspra e solitaria, che alterna i ripidi boschi alle pietraie, agli antipodi della mondanità di Courmayeur e Cervinia. Una Vallée dove i “quattromila” e i ghiacciai restano sullo sfondo, e al loro posto compaiono vette secondarie e sassose, che si raggiungono con camminate faticose.
“Da sette anni vivo in una baita in alta Valle d’Ayas, a 1900 metri di quota. Volevo raccontare una storia ambientata in un mondo diverso. L’ho trovato dove la pianura finisce, e lascia il posto a dei boschi fittissimi e cupi. E’ un ambiente aspro, inselvatichito, primordiale”, racconta Paolo Cognetti al telefono.
Nell’album di famiglia di “Giù nella valle” (Einaudi, 124 pagine, 16 euro), c’è anche un protagonista della rock. Parliamo di Bruce Springsteen, “The Boss”, che è partito dal New Jersey per diventare un idolo planetario. E che, come prima di lui Woody Guthrie e Bob Dylan, ha dedicato canzoni struggenti all’America più emarginata e povera, sempre triste e spesso anche violenta. “Sono cresciuto in una casa dove non c’era tanta musica, ma per fortuna avevo una sorella maggiore con uno stereo e qualche cassetta. Una di queste era “Nebraska” di Bruce Springsteen”, scrive Cognetti nelle note alla fine del libro.
“Mi ricordo perfettamente la copertina, con il nome del musicista e il titolo in rosso su fondo nero, e la fotografia in bianco e nero di una pianura vista dal parabrezza. Credo sia l’album che ho ascoltato di più nella vita. “Giù nella valle” è tutto una cover del disco”, al suo interno “ci sono brani come “Nebraska” (i cani), “Johnny 99” (Alfredo) e “My Father’s House”. Erano anni che ci pensavo!”, aggiunge.
Chi conosce le canzoni del Boss, si accorge di questa vicinanza ben prima della fine del libro. Il triangolo dei protagonisti, il forestale Luigi, il fratello violento Alfredo e l’affascinante Elisabetta, la moglie di Luigi che da ragazza è stata affascinata dall’altro, ricalca quello formato dal poliziotto Joe, da suo fratello Frankie e da Maria che ama ballare con entrambi. I protagonisti di “Highway Patrolman”, una ballata del 1982.
Come nei versi di Springsteen, il fratello “cattivo” ferisce un uomo in una rissa, e fugge inseguito dal poliziotto. In “Highway Patrolman” Frankie scappa su un’auto con la targa dell’Ohio, in “Giù nella valle” Alfredo corre su un motorino senza luci. Ma il finale è lo stesso. Il forestale Luigi si ferma quando il fratello entra in un fitto bosco, Joe accosta quando un cartello segnala che al Canada – e alla salvezza di Frankie – mancano solo cinque miglia. “Un uomo che volta le spalle alla sua famiglia non è buono” spiega il ritornello.
E’ un’altra citazione del Boss, stavolta da “The River” uno dei suoi capolavori, l’immagine di Elisabetta che ama tuffarsi nelle acque fredde del fiume (“il” Sesia secondo i forestieri, “la Sesia” per la gente del posto). E lo fa, insieme a Luigi, anche subito dopo il loro matrimonio.
“Giù nella valle” è ambientato una trentina di anni fa, quando si paga e si pensa ancora in lire, quando nei bar e ristoranti italiani si fuma, quando il Corpo Forestale dello Stato non è ancora stato assorbito dai Carabinieri. Il lupo, in quegli anni, non è ancora risalito fino alle Alpi, forestali e allevatori mormorano di un suo possibile arrivo. I protagonisti del primo capitolo del libro non sono lupi ma due cani, tra i quali un maschio primordiale e violento.
E’ una buona introduzione per un testo dove gli esseri umani sono altrettanto tagliati nella pietra. Il paesaggio è quello della bassa Valsesia, vicina a Novara e Vercelli se si bada ai chilometri, ma lontana mille miglia dalla pianura se si bada al linguaggio, allo stile di vita e al lavoro.
Nella valle raccontata da Cognetti la pioggia sembra non fermarsi mai, e gli uomini lavorano duro, fumano come se non ci fosse un domani, e prima di tornare a casa passano dall’osteria a ubriacarsi. Le donne li attendono con pazienza, mandano avanti la casa, sopportano le brutalità e gli eccessi dei mariti.
L’interesse di Paolo Cognetti per la Valsesia deriva dal contrasto con l’assolata Valle d’Ayas dove ha scelto di vivere, e dove ha ambientato “Le otto montagne”. Alla fine di “Giù nella valle”, spiega che “la Sesia è uno dei fiumi più belli per scendere dalle rapide”, e che la valle “ha una solida tradizione come rifugio di perseguitati e minoranze, da Fra’ Dolcino ai Walser fino ai partigiani della Resistenza”. A vederla dalle vette e dai ghiacciai del Monte Rosa, invece, la Valsesia sembra “un imbuto di nebbie”, ed è “il posto da cui arriva il maltempo”. Il paragone con le nuvole cupe del Nebraska è spiegato.
Negli ultimi anni, Paolo Cognetti si è schierato più volte per l’ambiente, contro gli eccessi del turismo legato allo sci. “La montagna deve ridiventare attrattiva, dev’essere un luogo dov’è possibile vivere. Non vale solo per le Alpi ricche come la Valle d’Aosta e l’Alto Adige, ma anche per il Cuneese, per la Carnia, per l’Appennino” racconta.
Sembrano ambientate qualche decennio prima del resto del libro, negli anni Sessanta e Settanta, le pagine in cui il forestale Luigi sogna di dare una svolta alla sua vita trasformando la baita di Fontana Fredda, dov’è vissuto ed è morto suo padre, in una piccola stazione di sci attrezzata con una seggiovia, un paio di piste, un bar e magari un piccolo albergo.
“Grato, hai sentito della seggiovia? Porterà un po’ di novità, eh? Qualcuno tornerà anche a viverci, quassù, potrebbe esser bello”, chiede Elisabetta al suocero una delle ultime volte che lo va a trovare nella baita. Lui però, tra un colpo di tosse e l’altro, risponde che l’unica conseguenza della strada, che è arrivata lassù vent’anni prima, è stata di far scendere i montanari verso le fabbriche del fondovalle.
Per tracciare le piste da sci, poi, occorrerebbe tagliare circa cinquemila alberi. “E’ dalla notte dei tempi che gli uomini tagliano le piante, accoppano le bestie e si sfondano la testa a vicenda” riflette il forestale Luigi alla fine del libro. Poi fuma l’ennesima sigaretta, si ferma al margine della strada, scopre davanti a sé i ghiacciai del Monte Rosa, e resta lì “a fissare quel bianco abbagliante contro il cielo”. Forse nella bellezza dei monti c’è una promessa di vita. Anche per la cupa Valsesia che ricorda il Nebraska di Springsteen.
Sarà il pubblico dei lettori a dire se il paragone tra l’America povera e violenta di Springsteen e il mondo prealpino di Paolo Cognetti funziona. Non c’è dubbio, però, che per capire la natura e la montagna italiana (due terzi del Paese, non lo dimentichiamo), non si deve guardare solo verso il Monte Bianco e le Tre Cime, verso tramonti da favola e stambecchi. Il mondo di mezzo di “Giù nella valle” è una realtà, in Piemonte come ai piedi degli Appalachi. Chi lo racconta ci aiuta a capire chi siamo.