Cento anni fa la tragedia del Gleno
La diga dell’Alta Val di Scalve crollò a pochi mesi dall’entrata in funzione causando 365 vittime. Tante iniziative per non far dimenticare quella strage
Il nome Gleno dice poco a gran parte degli italiani. È una montagna austera in provincia di Bergamo, alta 2882 metri, dalla cui vetta si gode uno splendido panorama sulle principali cime delle Alpi Orobie. Peccato che questo nome sia associato a un disastro, che cent’anni fa spezzò 356 vite e forse anche più, il numero esatto non è mai stato appurato. Come nel caso del più noto Vajont, sul banco degli imputati c’è una diga che doveva regalare benessere e progresso ai valligiani ma che invece portò solo morte e distruzione.
Erano le 7.15 del 1 dicembre 1923 quando il custode della diga del Gleno, situata a 1.500 m di altitudine in Val di Scalve, notò che qualcosa non andava. Sembrava esserci una crepa nella struttura, che conteneva un bacino con 6 milioni di metri cubi di acqua. Pioveva da giorni ininterrottamente, e nei paesini sottostanti la gente mormorava “qui viene giù il Gleno”. Una frase pronunciata con un briciolo di paura, a cui nessuno voleva credere davvero. La diga ad archi multipli, un capolavoro d’ingegneria, era stata ultimata solo da pochi mesi. Che potesse squarciarsi e crollare pareva altamente improbabile. E invece, l’impossibile accadde. Una parte della struttura rovinò lungo la valle trascinando una fiumana violentissima di acqua, fango e detriti. Colpì Bueggio e Dezzo, poi Darfo Boario e Angolo in Val Camonica fino a giungere nel lago d’Iseo.
Il 12 agosto scorso, davanti al rudere della diga, che è ancora ben conservata nella parte non crollata, si è tenuto uno spettacolo commemorativo che ha visto la partecipazione di circa 1500 persone, salite a piedi. L’anima di questa iniziativa è stato Giorgio Cordini, il compositore e chitarrista per lunghi anni a fianco di Fabrizio De André, autore della canzone “Viene giù il Gleno”. «L’idea è nata un paio d’anni fa», racconta l’artista di origine veneziana che vive in Val di Scalve da sei anni. «Si avvicinava il centenario di questa tragedia, volevo fare memoria e rendere omaggio alle vittime». Oltre all’autore, la canzone è interpretata anche da Omar Pedrini, Cristina Donà ed Enrico Bollero, anche loro presenti allo spettacolo. L’attore Luciano Bertoli ha letto alcuni brani dal libro che accompagna il CD, scritti da Andrea Maj, esperto di storia locale, e Alessandro Romelli, che racconta della sua infanzia e delle gite da ragazzini alla diga del Gleno.
Per raggiungere la diga basta un’ora di cammino
Il centenario del disastro sarà l’1 dicembre prossimo. Oggi i ruderi possono essere comodamente raggiunti percorrendo due sentieri. «Da Nona, frazione di Vilminore di Scalve, si arriva in circa un’ora », spiega Cordini. «In alternativa, si può lasciare la macchina a Pianezza, un’altra frazione: in questo caso, c’è un po’ più di dislivello, si giunge alla diga in un’ora e mezza. Una carrozzabile non è stata mai costruita, in passato esisteva una teleferica, poi smantellata. Anche l’esercente del chiosco vicino alla diga sale tutti i giorni a piedi, portando i panini e gli snack a dorso di mulo». L’assenza delle auto è una benedizione per questo luogo, che conserva un fascino al contempo sinistro e magico.
I resti della diga testimoniano di un’impresa, realizzata fra il 1916 e il 1923, che voleva portare ricchezza nella valle, da cui spesso si migrava in cerca di migliori guadagni. «La costruzione aveva coinvolto gli uomini come manovali e le donne come portatrici di ferro, cemento, malta», dice Cordini, che conosce molto bene questa zona. Sua moglie ha origini locali e lui frequenta le montagne di quest’area da oltre 25 anni.
Che cosa non ha funzionato? Difficile dirlo: il gigante, alto quasi cento metri, era nato sotto una cattiva stella. Ci furono errori di progettazione, cambiamenti in corso d’opera fatti con leggerezza, imperizia, uso di materiali sbagliati. E così quello che doveva essere un fiore all’occhiello per il neo nato regime fascista divenne una tragedia da dimenticare al più presto, anche se sul sito del disastro accorsero subito il re Vittorio Emanuele III e Gabriele D’Annunzio. Al processo, Virgilio Viganò, l’imprenditore che fece costruire la diga, e l’ingegner Santangelo, a capo del cantiere, furono i principali imputati, condannati ma poi assolti in appello. Viganò morì cinque anni dopo il disastro. I sopravvissuti rimasero a piangere i loro morti, senza sapere a chi attribuire la responsabilità dell’accaduto.
Cinquanta eventi per far ricordare la tragedia del 1923
Il Comitato per il Centenario sta portando avanti oltre una cinquantina di eventi, per fare memoria. Giorgio Cordini con la sua canzone “Viene giù il Gleno” è andato nelle scuole, riscontrando l’interesse di molti insegnanti che la faranno imparare agli studenti. Il passato non si dimentica, ma lo sguardo qui è rivolto anche al futuro. «Nel 2025 a Schilpario ci saranno i Mondiali Juniores di sci di fondo», commenta Cordini. «D’inverno, qui è un paradiso per lo sci alpinismo. E a dicembre prossimo riaprirà, profondamente rinnovato, il comprensorio sciistico di Colere».
Il Gleno resta comunque nel cuore di tutti. E se volete che sia un po’ anche nel vostro, oltre a visitare i luoghi, potete guardare un documentario realizzato a 80 anni della tragedia nel 2003 (https://vimeo.com/230925656). Ascolterete la voce degli anziani della Val di Scalve che nel 1923 furono fra i bambini fortunati che si salvarono. Testimonianze preziose, che ci restituiscono in modo vivido l’orrore, la paura, il dolore della gente il giorno in cui la diga del Gleno venne giù.