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Chi ha salito davvero gli 8000? Parla Federico Bernardi, l’italiano tra gli autori del rapporto

Tre oppure quarantaquattro alpinisti? Reinhold Messner o Ed Viesturs? Esiste una “zona di tolleranza” intorno a una cima che consente di dire di averla raggiunta senza aver calcato il punto più alto? Le affermazioni di Eberhard Jurgalski e degli altri “8000ers” (che si legge eight-thousanders, e vuol dire semplicemente “gli ottomila”) sono state liquidate da molti sui social come ridicole, ma hanno aperto un dibattito che è destinato a durare.

Come abbiamo riferito, Messner ha definito “ridicoli” i dubbi relativi alla sua salita dell’Annapurna dove nel 1985, con Hans Kammerlander, ha aperto una via straordinaria. Nives Meroi a proposito del Manaslu ha usato toni diversi. “Abbiamo capito che non avevamo raggiunto la vera cima, se ce ne fossimo accorti quel giorno saremmo saliti ancora”.

Nei giorni scorsi l’attenzione dei media si è concentrata su Jurgalski, lo scrittore e giornalista tedesco che ha fondato gli “8000ers” e il loro sito. Ma il gruppo comprende altre sei persone, di ogni parte del mondo. Un suo componente, Federico Bernardi, è italiano, di Bologna. Gli abbiamo chiesto di presentarsi e di aiutarci a capire.

Lei è un alpinista? Ha salito qualche “ottomila”? Com’è entrato nel gruppo degli 8000ers?

Arrampico, cammino, non sono un alpinista, non sono mai stato a 8000 metri. La passione per la storia dell’alpinismo mi è arrivata da mio nonno Alfonso Bernardi.

Lo conosco! Le sue antologie sul Monte Bianco e sul Cervino, pubblicate negli anni Sessanta da Zanichelli, restano fondamentali per conoscere quelle montagne.

Grazie! Nonno Alfonso ha lasciato un archivio incredibile, e io ci sono cresciuto dentro. Lavorava come editor per Zanichelli, ha seguito la pubblicazione di Le mie montagne, il primo libro di Walter Bonatti. Ha insistito perché Walter raccontasse in dettaglio la “brutta storia” del K2, l’appuntamento mancato con Compagnoni e Lacedelli, la polemica è partita da lì. Gliel’hanno fatta pagare.

Deduco che la passione per riscrivere la storia, o almeno per chiarire i dettagli, è di famiglia. Ma lei che ci azzecca con Eberhard Jurgalski e compagni?

Scrivo da anni di storia dell’alpinismo, ho collaborato con i Ragni di Lecco, scrivo per testate importanti come Rock & Ice e Climbing, e adesso anche per Alpinist. Sono entrato in contratto con Eberhard e gli altri, e ho pensato di dare una mano come informatico. Ora tento di occuparmi anche di comunicazione.

Senza grandi risultati, mi pare… Il sito 8000ers.com ha un aspetto “antico”. L’uscita del vostro rapporto in piena estate, senza comunicati o altre spiegazioni, non mi sembra un capolavoro di comunicazione.

E’ vero! Il sito cambierà faccia a breve, Eberhard è un genio nella ricerca storica ma di rapporti con la stampa sa poco. La notizia, però, era già ampiamente annunciata. Il New York Times, uno dei più autorevoli giornali del mondo, l’ha data il 12 maggio del 2021 con la firma di John Branch, vincitore di un Premio Pulitzer.

Cosa ha scritto Branch sul NYT?

Tutto, o quasi. Ha presentato il gruppo degli “8000ers”, e ha raccontato le due spedizioni di Ed Viesturs allo Shishapangma nel 1993 e nel 2001. Nella prima si è fermato su un’anticima, nella seconda ha percorso a cavalcioni l’ultima crestina verso la vera vetta.

Il New York Times ha scritto anche dell’Annapurna di Messner e Kammerlander?

Certo, e con il massimo rispetto. In una conversazione via Skype con John Branch, Reinhold è stato chiaro. “Se quaIcuno afferma che forse sull’Annapurna, che ha una cresta molto lunga, mi sono fermato cinque metri sotto la cima, per me è ok, non proverò nemmeno a difendermi. Se invece qualcuno arriverà a dire che quello che ho fatto è una cazzata (bullshit in inglese) gli risponderò di pensare quel che vuole”.

Bernardi, questo è un punto fondamentale. Il vostro rapporto non rischia di liquidare come bullshit, cazzate, alcune delle più grandi imprese alpinistiche dell’Himalaya? Non rischiamo di buttar via il proverbiale bambino insieme all’acqua sporca?  

Ha ragione, ma in tutti i documenti del sito 8000ers.com c’è scritto che la nostra ricerca non toglie nulla al valore alpinistico delle ascensioni. La nostra è una ricerca geografica, non tocca le motivazioni degli alpinisti. Se chi si ferma prima della cima sa o no che potrebbe continuare non ci riguarda.

Questo ci porta al secondo punto. Lei sa bene che i collezionisti dei 14 “ottomila” sono in buona parte professionisti. Per loro aver completato o no l’elenco è una questione serissima, e i dubbi possono creare seri danni economici.

E’ vero, e infatti tre anni fa Eberhard Jurgalski aveva proposto di creare delle “zone di tolleranza” per poter affermare se si è arrivati in vetta oppure no. Ma non è possibile farlo. E comunque, come spiega Eberhard, potrebbe valere solo per il passato, non per il futuro. Oggi gli strumenti tecnologici ci sono.

Mi sta dicendo che gli alpinisti, per essere creduti, devono produrre immagini e/o tracciati GPS delle loro salite? L’alpinismo non è più basato sulla fiducia?

L’alpinismo è stato basato sulla fiducia per molto tempo, e io personalmente credo che lo sia ancora, anche nelle imprese su “seimila” e “settemila” del Karakorum e dell’Himalaya. Ma se oggi fai la collezione dei 14 “ottomila” devi poter dimostrare di esserci stato.

Che mi dice del Kangchenjunga? George Band e Joe Brown nel 1955 si sono fermati prima della cima, per rispettare la religione locale. Altri poi l’hanno toccata.

Lo hanno dichiarato, l’ultima calotta di neve è elementare, per noi non ci sono problemi.

Nel 1997 Michael Kennedy, un alpinista americano che ha diretto Climbing e Alpinist, ha scritto un editoriale dal titolo “Vicino conta per le bombe a mano, non per l’alpinismo”

Alcuni del gruppo degli “8000ers” si sono esposti a proposito di altri exploit. Rodolphe Popier, collaboratore dell’Himalayan Database, ha avanzato dei dubbi sull’ascensione sulla salita del 2013 di Ueli Steck sulla Sud dell’Annapurna. I tempi non tornavano.

Anche Damien Gildea ha fatto qualcosa del genere, no?

Sì. Damien, australiano, è un grande esploratore dell’Antartide. Nel 2018 ha criticato la traversata del continente dell’americano Colin O’Brady, spiegando che non era né “solitaria” né “senza appoggio esterno” come affermato dal protagonista. Poi, sull’American Alpine Journal, ha affrontato la questione degli “ottomila”.

Che ruolo ha nel vostro gruppo Thaneswar Guragai dell’agenzia Seven Summit Treks?

Un ruolo importante. Organizza spedizioni commerciali, è in prima fila. Gli sherpa che lavorano con loro riportano informazioni aggiornate e precise. Nella foto della vetta del Manaslu scattata dal drone di Jackson Groves nel 2021 si vede bene che guide e clienti si fermano a una sella poco sotto la cima. Per loro va bene, e portare un gruppo su per la crestina finale sarebbe troppo pericoloso. Fermarsi è una scelta di sicurezza.

Nella foto, però, si vede anche una cordata che sale a destra.

Vero, quello è Mingma G. Sherpa, un grande alpinista, che vuole arrivare sulla vera cima. La difficoltà di quel pendio si vede, sono due storie diverse.

Cosa farete voi “8000ers” in futuro?

Molte cose. Dobbiamo rifare il sito, preparare e pubblicare dei rapporti più facili da leggere, presentarci meglio alla stampa.

Cosa accadrà al vostro rapporto? Verrà accettato? Da chi?

Noi facciamo un lavoro di studio e ricerca, preciso grazie al lavoro d’archivio e alle nuove tecnologie, senza mancare di rispetto a nessuno. Anch’io, come avete scritto su Montagna.tv, credo che una commissione per valutare i casi dubbi ci vorrebbe, e sarebbe servita anche al tempo di Liz Hawley. Gli unici a poterlo fare sono l’UIAA e i Club Alpini, ma non mi sembra che ne abbiano voglia.

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