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Impatto della globalizzazione sui Monti Altai: più cashmere, meno leopardi delle nevi

Il termine “globalizzazione” ci porta a pensare in maniera immediata alle grandi metropoli e ai Paesi più sviluppati al mondo. Un recente studio, coordinato dall’Università di Firenze, mostra quanto tale visione sia parziale ed errata. Anche in Paesi remoti e scarsamente abitati, come la Mongolia, la globalizzazione dei consumi sta determinando impatti inattesi sulla fauna e flora selvatica.

Alla ricerca, che ha visto la collaborazione accanto a UniFi del MUSE di Trento, hanno partecipato il CNR, l’Università di Lubiana, l’Università di Losanna e alcuni enti in Mongolia tra cui la ONG Wildlife Initiative, che ha coordinato la logistica in loco, e le autorità nazionali competenti. Tra i principali finanziatori del programma la Fondazione statunitense Panthera e, in Italia, la Fondazione Arca del Parco Natura Viva.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Biological Conservation in un paper dal titolo Co-occurrence of snow leopard, wolf and Siberian ibex under livestock encroachment into protected areas across the Mongolian Altai”.

Ai leopardi delle nevi non piacciono le capre

La domanda cui hanno cercato di fornire risposta i ricercatori, come si evince dal titolo stesso, è quale impatto abbia sulla fauna selvatica di alcune aree protette dei Monti Altai (leopardi delle nevi ma anche stambecco siberiano e lupo) l’allevamento di capre per la produzione del cashmere. Non parliamo di una manciata di pecore. Il termine scelto dagli esperti è “enroachment”: invasione.

Negli ultimi decenni, infatti, il numero di capi di bestiame in Asia centrale è aumentato fortemente (in Cina e Mongolia in special modo) a causa dell’incremento della domanda di questo prodotto da parte del mercato globale, che vede fra l’altro l’Italia come primo paese trasformatore della lana grezza.

Analizzando i dati forniti da oltre 200 fototrappole posizionate all’interno di 4 aree protette della Mongolia Occidentale, è risultato evidente l’impatto negativo dell’allevamento sulle popolazioni dei leopardi delle nevi, nonché degli stambecchi siberiani, due specie legate da un rapporto di predazione. I lupi, al contrario, sembrano ben gradire l’aumento del bestiame in loco.

“L’obiettivo delle nostre analisi – spiega in un comunicato ufficiale il primo autore dello studio, Marco Salvatori, dottorando di ricerca presso l’Università di Firenze e il MUSE – era di capire se le mandrie di animali domestici, fotografate da oltre la metà delle fototrappole piazzate, agissero da fattore di attrazione, quale fonte aggiuntiva di prede, o di repulsione per i due grandi carnivori dell’area, il leopardo delle nevi e il lupo, e se inibissero la presenza dello stambecco siberiano, principale preda del leopardo delle nevi in queste aree”.

“I nostri risultati parlano chiaro – afferma il coordinatore Francesco Rovero: la pastorizia diffusa disturba il leopardo delle nevi, felino sfuggente e adattato a predare animali selvatici in terreni scoscesi, spingendolo ad evitare le zone utilizzate dalle grandi mandrie di bestiame, che sono però sempre più diffuse anche all’interno delle aree protette. Al contrario il lupo sembra essere attratto dagli animali domestici e questo genera il rischio di conflitti con i pastori.”

“Il leopardo delle nevi – precisa Valentina Oberosler, ricercatrice post-doc del MUSE, che ha contribuito allo studio – è il meno conosciuto e tra i più rari dei grandi felini: la sua distribuzione è frammentata, le sue popolazioni in diminuzione. Vive solo in catene montuose remote dell’Asia centrale, dal Nepal alla Siberia: si stima che ne sopravvivano poche migliaia di individui. Per questo è importante capire le cause principali del suo declino e fornire raccomandazioni utili alla corretta gestione dell’ambiente in cui vive”.

“Per il futuro – conclude Rovero – per non rischiare di compromettere i fragili equilibri biologici, sarà importante favorire pratiche di allevamento maggiormente compatibili con la sopravvivenza a lungo termine dei grandi mammiferi delle montagne dell’Asia centrale”.

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