Turismo

Lo chef Alfio Ghezzi sulla riapertura: “Guardiamo al locale con inventiva”

L’Italia del turismo, dalla montagna al mare, è bloccata. Il lockdown messo in atto per contenere l’espansione della pandemia legata al Coronavirus, ha azzerato l’economia turistica nazionale. Gli operatori del settore si trovano in un limbo, si pongono molte domande e si chiedono quale potrebbe essere il futuro, il dopo. Tra di loro anche lo chef trentino Alfio Ghezzi che meno di un anno fa ha lasciato la cucina della Locanda Margon per aprire il nuovo ristorante al Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea) di Rovereto.

Alfio, siamo a pochi giorni da un parziale riapertura del nostro Paese. Cosa pensi dell’attuale situazione?

“Questo è un momento drammatico, ma anche contraddittorio. Da un lato tutti hanno grande voglia di riaprire; dall’altra parte esiste un’incertezza dovuta alla mancanza di indirizzo. Non si sa come si deve aprire, non si conosce bene la malattia e cosa si deve fare per prevenirla oltre al distanziamento sociale. Non sappiamo cosa deve effettivamente fare un ristoratore per tutelare i propri ospiti e, al contempo, i propri collaboratori e dipendenti.”

Credi abbia senso una riapertura verso la metà del mese?

“Un ristorante è pur sempre un’attività commerciale che ha come fine ultimo quello di produrre un guadagno, è però necessario capire e valutare bene se l’apertura conviene.

Ci saranno dei costi molto superiori rispetto a prima e sarà necessario mettere in campo tutta una serie di procedure che andranno a incidere sul guadagno. Per contro subiremo una diminuzione del lavoro. Tutti stimano una riduzione al massimo del 40% rispetto a prima del Coronavirus, ci si chiede quindi se può avere senso aprire a giugno o valutare l’attesa di un momento propizio. Un periodo con migliori garanzie di sicurezza sia nei confronti dei clienti che per noi in quanto a volume di lavoro. È tutto molto nebuloso se poi si pensa che non sono ancora stati varati adeguati piani a supporto di ristoratori e albergatori.”

Le domande che ti frullano in testa sono solamente di carattere economico?

“Al primo posto ho molte domande su come poter offrire una condizione di sicurezza a ospiti e dipendenti. Mi interrogo poi su tutti gli aspetti relativi alla gestione: saremo capaci di applicare tutte le normative di legge che saranno previste?

Una domanda molto importante, che si lega alle precedenti, è quella legata alla salvaguardia dell’identità di locali e ristoranti. Si ipotizzano plexiglass, righe per terra, telecamere con scanner. Il ristorante è un luogo di socializzazione, la tavola è quell’oggetto d’arredo attorno a cui si è sempre radunata la famiglia, dove si sono sempre prese le decisioni importanti.”

Quali soluzioni stai immaginando per il dopo Coronavirus?

“Stiamo immaginando l’utilizzo di altri spazi, oltre alla sala interna del ristorante. Abbiamo una grande piazza esterna e poi il parco delle sculture dove sto pensando alla possibilità di organizzare dei picnic. Idee a cui prima non avevamo mai pensato, che nascono dalla necessità di interpretare le limitazioni.

Questo è sicuramente un momento di crisi in cui bisogna avere prudenza e fare attenzione, ma in cui è anche necessario avere l’audacia di pensare a cose nuove. Può quindi essere un momento assolutamente stimolante.”

Guardando al futuro oggi si parla di prossimità, di tradizione e di valorizzazione delle eccellenze locali. Tutte caratteristiche che da sempre fanno parte della tua cucina…

“Si ho sempre cercato di lavorare impostando un discorso basato sull’italianità, sulla prossimità. Adesso si parla molto di questi concetti. Ristoratori, chef, albergatori sostengono la necessità di tornare a questi principi base e sono davvero contento di ciò.

Ritornare al locale significa innescare un processo sinergico con gli operatori del territorio, creare una microeconomia che aiuta. Per noi, che abitiamo la montagna, sono valori molto importanti, appartengono al nostro stile di vita.  Io sono cresciuto in un paesino a 800 metri di quota tra il gruppo dell’Adamello e il Brenta e lì ricordo come avevamo tutto quel che ci serviva in pochi chilometri. Ogni famiglia aveva un animale e un piccolo orto. Ognuno coltivava il suo pezzo di terra creando una relazione diversa tra uomo e natura, cresceva una consapevolezza dei limiti basata sulla stagionalità.”

Dopo il Coronavirus la tua cucina cambierà?

“Non credo. Continueremo a fare quel che facevamo prima, cercando di aumentare sempre più il legame con il territorio. Cercheremo di lavorare con i produttori della nostra terra, anche per quei prodotti che magari prima prendevamo dalla grande distribuzione. Penso però che questo modo di vivere la cucina sia prima di tutto uno stile di vita, che lo si debba sentire come parte di se.

Dopo il virus ci sarà certamente una maggior consapevolezza di quel che si va a mangiare. Gli avventori vorranno riconoscere la salubrità e la veridicità dei prodotti. Sparirà la sovrastruttura in favore di una cucina fatta di sostanza, gusto e stagionalità.”

Da appassionato di montagna come vedi i possibili cambiamenti nella frequentazione delle terre alte?

“Io vedo la montagna come il luogo della libertà e della purezza. Non riesco a immaginarla limitata. In montagna non immagino gli assembramenti, chi sale lo fa per stare a contatto con la natura non con altre decine di persone.

Non so onestamente come immaginarla e come immaginare l’accoglienza nei rifugi alpini.”

Un’ultima domanda riguardo la cucina. Oggi si parla molto di delivery, ha senso per la cucina d’autore?

“Come diceva Paul Bocuse, uno dei più grandi chef contemporanei, ‘esiste un buona cucina e una cattiva cucina, tutto qui’. La buona cucina è quella che rispetta i prodotti, il territorio, che crea una relazione con il produttore, che trasforma con semplicità ed essenzialità. La cattiva cucina è quella basata sulle lavorazioni eccessive, sull’artefatto, sulla sovrastruttura, sulla globalizzazione che vuole far viaggiare le merci per migliaia di chilometri.

Lavorando secondo il principio della buona cucina qualunque chef dovrebbe essere fiero di poter portare i propri piatti nelle case degli ospiti. Fare delivery in questo momento non significa cercare profitto, per lo meno qui da noi. In montagna diventa il modo per stare vicini ai propri ospiti, per mantenere le relazioni, per far vedere che ci prendiamo cura di loro, per promuovere un certo tipo di cucina.”

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2 Commenti

  1. Accelerare la consumazione, dare un tempo ..limitato..per lasciare spazio e tempo ad altri..c’e’chi con un caffe’ occupa un tavolino di bar per mezza giornata, chi per un mono piatto sta lì tre ore…insomma un poco di disciplina ai flaneur.Terminata la consumazion e offrire altre zone per la siesta..Tra il marketing…dare risalto ai prodotti usati per pulire e sanificare, che non esalino vapori sgradevoli., a locali chiusi ..ozono in aria…e far vedere il personale QUALIFICATO all’opera..non personale d’accatto LOW COST che con uno straccio ed un secchio pulisce tutta la giornata..tutti i locali…SEMPLIFICARE LE RICETTE DEI PIATTI, AL FINE DI RENDERNE PREPARAZIONE E CONSUMAZIONE RAPIDE. PERSONALE DI CUCINA E D ISERVIZIO..INAPPUNTABILE…BARBE E CHIOME RACCOLTE.,MANICHE LUNGHE.

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