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L’eredità di Daniele Nardi

È passato un anno. A volte mi sembra sia trascorsa una vita intera da quella notte, da quei giorni frenetici, senza sonno, di ansia, paura, speranza e poi solo dolore. A volte mi sembra che quella notte sia incredibilmente vicina tanto è vivida. A volte invece, quando mi viene voglia di alzare il telefono e scrivere a Daniele, mi sembra non sia mai avvenuta.

Eppure, è passato un anno. Un anno in cui si è detto e scritto tanto, a volte anche troppo soprattutto nel momento in cui ad assordare sarebbe dovuto essere solo il silenzio, non i giudizi.

Un anno dalla morte di Daniele Nardi e Tom Ballard sullo Sperone Mummery. Non voglio però ricordare i fatti o le polemiche che sono seguite. Vorrei invece parlare di quello ci ha lasciato Daniele, il suo testamento se posso permettermi di definirlo tale.

Daniele Nardi era un buon alpinista che ha salito cinque Ottomila senza ossigeno (tra cui Everest e K2). Era un alpinista anche tecnico, lo dimostra l’apertura della via tra Bhagirathi III e IV. Belle e difficili alcune delle linee disegnate sui suoi Appennini. Daniele era convinto che, rispetto al raggiungere la vetta ad ogni costo, contasse molto di più il modo in cui si sale la montagna. Cercava lo stile e l’etica della scalata. Una ricerca che lo ha condotto al Nanga Parbat, dove ha intrecciato il suo destino con lo Sperone Mummery. Era inevitabile: quella via era LA risposta di Daniele. Alpinistica, ma soprattutto umana. Scalando la via perfetta avrebbe una volta per tutte sfamato i suoi demoni.

È nella profonda umanità di questo suo legame, bello e allo stesso tempo terribile, che possiamo leggere la lezione di Daniele Nardi. Avere un ideale, combattere per esso, nonostante ci venga detto che è follia. Credere nei sogni, anche se sembrano grandi e inarrivabili. Anche se significherà fallire, perché continuare a provarci è più importante della caduta. Vivere per essi.

Non era ovviamente perfetto Daniele, a differenza della sua via, e ha pagato un prezzo decisamente troppo alto, come tanti alpinisti prima di lui. Ne è valsa la pena? Ce lo chiediamo ogni volta e ce lo chiederemo ancora. È umano farlo, cercare di capire. Ognuno arriverà alla propria risposta, che sarà intima e unica, come la vita di tutti noi. Daniele aveva trovato la sua: vivere per inseguire il proprio sogno. È passato un anno e questa è l’eredità che ci ha lasciato.

Mi piacerebbe essere ricordato come un ragazzo che ha provato a fare una cosa incredibile, impossibile, che però non si è arreso. E se non dovessi tornare, vorrei che il messaggio che arrivasse a mio figlio fosse questo: non fermarti, non arrenderti, datti da fare perché il mondo ha bisogno di persone migliori che facciano sì che la pace sia una realtà e non soltanto un’idea e vale la pena farlo

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