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Anatolij Bukreev

Le montagne non sono stadi dove soddisfo la mia ambizione di arrivare. Sono cattedrali, grandiose e pure, i templi della mia religione. Anatolij Bukreev

Determinato e ambizioso alpinista russo, naturalizzato kazako, Anatolij Bukreev ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’himalaysmo dimostrando fin da subito una grande passione sia sportiva che alpinistica. Cresciuto nell’Ex Unione Sovietica, ha poi vissuto la grande libertà del periodo post cortina di ferro, trovandola però veramente solo in altissima quota.

Sfortunato protagonista delle vicende legate alla tragedia dell’Everest 1996, nel corso della sua esistenza scalò 11 Ottomila. Alcuni li salì più volte tracciandovi nuove vie o stabilendovi nuovi primati alpinistici.

La vita

Nato da una famiglia povera il 16 gennaio 1958 nel piccolo centro di Korkino, cittadina della Russia europea centrale che sorge ai piedi dei monti Urali, Anatolij Bukreev si appassiona all’alpinismo dopo gli studi universitari in fisica. È però in questi anni che inizia ad avvicinarsi al mondo della montagna, prima con un corso di sci di fondo e poi sperimentando le prime arrampicate. Il vero e proprio alpinismo arriverà solo con il suo trasferimento ad Alma-Ata (ex capitale dell’attuale Kazakistan) dove può mettersi alla prova sulla catena del Tien Shan. È su queste montagne che inizia un’intensa attività alpinistica che lo porta in breve tempo ai primi exploit. Nel 1985 entra a far parte team d’alpinismo kazako e nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS, diventa cittadino della nazione.

L’alpinismo

Nel 1987 il suo primo risultato alpinistico degno di nota: la realizzazione della prima salita in solitaria del Picco Ibn Sina (7137 m, ex Pic Lenin) a cui segue, nel 1989, l’apertura di una nuova via sul Kangchenjunga (8556 m) come membro di una spedizione sovietica. Un primo approccio a quota Ottomila notevole, ma non è sufficiente a sfogare del tutto l’ambizione di Anatolij che un mese e mezzo dopo questa salita riparte con l’intenzione di compiere la prima traversata integrale delle quattro cime che compongono il massiccio del Kangchenjunga. Impresa che gli riesce in quattro giorni, dal 30 maggio al 2 giugno.

Toccato il suo primo Ottomila Anatolij non si è più fermato scalando in tempi record una montagna dopo l’altra. Nel 1990 è in nord America dove ripete la via Cassin al Denali e poi la West Rib. Nel 1992 ritorna in Himalaya per salire il Dhaulagiri con la prima spedizione himalayana kazaka. In questa occasione viene tracciata una nuova linea che sale lungo la parete ovest. Nell’ottobre dello stesso anno affronta l’Everest salendolo dal lato nepalese. L’anno dopo è la volta del K2, su cui segue lo sperone Abruzzi. Quindi tocca a Makalu (8476 m) e Makalu II (8460 m), nel 1994. Nel maggio del 1997 ritorna sull’Everest, passando questa volta dal lato nord, prima di andare al Dhaulagiri e al Manaslu. Sul primo realizzerà il record di salita impiegando, dal campo base alla vetta, 17 ore e 15 minuti; sul secondo salirà invece in dicembre come membro della seconda spedizione nazionale kazaka. Nel 1996 torna ancora sull’Everest, come guida per l’associazione Mountain Madness. Si trova così a operare per la spedizione commerciale guidata da Scott Fischer divenendo protagonista di quella che è ritenuta una delle più grandi tragedie nella storia dell’Himalaya. Resoconti sugli accadimenti del 1996 sono stati scritti in molti libri. Qello di Jon Krakauer, “Aria sottile” ha suscitato numerose critiche e proteste in quanto alcuni dettagli del suo racconto sono stati definiti non veritieri o distorti da altri sopravvissuti.

Quindici giorni dopo l’Everest, il 17 maggio, raggiunge la vetta del Lhotse senza ossigeno, in solitaria e nel tempo record di 21 ore e 16 minuti dal campo base. Sempre nel 1996 raggiunge la vetta del Cho Oyu (8201 m), insieme alla terza spedizione nazionale kazaka e un mese dopo, il 9 ottobre, quella dello Shisha Pangma (8008 m).

Nel 1997 è nuovamente sull’Everest, per la quarta volta, come guida per una spedizione militare indonesiana, quindi ritorna anche sul Lhotse per poi dedicarsi, nel corso dell’estate, alla salita solitaria di Broad Peak (8047 m) e Gasherbrum II (8035 m). Sempre nel 1997 parte un’altra spedizione, questa volta invernale e diretta alla parete est dell’Annapurna. Con lui si trovano i compagni Dimitri Sobolev e l’italiano Simone Moro. Sono i primi giorni di spedizione e stanno provando i primi difficili passaggi sulla montagna quando una valanga si stacca e li travolge a una quota di circa 5700 metri sommergendoli per sempre. Dei tre solo Simone riuscirà a salvarsi dopo essere stato trascinato per 800 metri dalla furia della valanga. I corpi di Solobev e Bukreev non verranno più ritrovati.

Al campo base dell’Annapurna è stata posizionata una targa in memoria di Anatalij.

Onorificenze

David A. Sowles Award nel 1997

Libri

Cometa sull’Annapurna, Simone Moro, Corbaccio, 2003

Non so come, ma nonostante le centinaia di metri che ci separavano io ricordo il suo sguardo proprio come se l’avessi avuto di fronte. È difficile esprimere ciò che quegli occhi azzurri mi dissero. Simone Moro

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