Alpinismo

Sir Hillary: l’alpinismo sta degenerando

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EVEREST, Nepal – La favola di Mark Inglis – alpinista neozelandese senza gambe che un paio di settimane fa riuscì ad arrivare in cima all’Everest – si sta trasformando in un incubo. Inglis è finito nella bufera dopo aver dichiarato al Washington Times di aver incontrato, nella via di salita, l’agonizzante David Sharp, senza far nulla per salvarlo.

La vicenda risale al 15 maggio 2006. David Sharp, alpinista inglese di 34 anni, raggiuge la cima dell’Everest dallo spigolo Nord, in solitaria. Ma durante la discesa, finisce l’ossigeno. Ad una quota di circa 8.500 metri, Sharp si accascia e prima di morire, resta lì, agonizzante, per molte ore. La mattina dopo, ben 40 alpinisti – tra cui Inglis – sarebbero passati accanto a Sharp, agonizzante ma vivo, durante il loro tentativo di vetta. Ma nessuno di loro si sarebbe fermato per aiutarlo.
 
Qualche giorno dopo, durante un’intervista alla televisione neozelandese, ripresa dal Washington Times, Inglis avrebbe dichiarato “Sì, gli siamo passati accanto. Era ancora vivo, ma non aveva più ossigeno, non aveva guanti. Era lì dal giorno prima. Cosa potevamo fare?”
 
A chi gli ha fatto notare che avrebbe potuto rinunciare alla vetta per salvare una vita, Inglis ha risposto che a quella quota, è già molto difficile salvare se stessi. “Più di 40 persone, quella mattina, l’hanno visto mentre salivano in vetta. Io ero uno dei primi, e l’ho comunicato a Russell Brice (il capospedizione). Ma lui mi ha detto che non potevo essergli d’aiuto. Visto il numero di ore che David aveva già passato lì, senza ossigeno, era da considerarsi a tutti gli effetti morto”.
 
Inutile dire che la “candida” dichiarazione di Inglis ha scatenato un vespaio di polemiche. Da ogni parte del mondo sono insorti alpinisti e non, gridando allo scandalo.
 
Si è smosso persino Sir Edmund Hillary, colui che nel 1953 conquistò la vetta dell’Everest insieme a Tenzing. Hillary, dalla Nuova Zelanda, ha tuonato contro la degenerazione dell’alpinismo: “Nelle nostre spedizioni, nessuno si sarebbe mai sognato, nemmeno lontanamente, di lasciare un compagno ferito sulla montagna a morire”.
 
Nel suo sfogo, rilasciato all’Otago Daily Times il 23 maggio, Sir Hillary ha anche commentato che “la gente ha completamente perso la cognizione di ciò che è importante. L’altitudine non può essere una scusa. E’ terrificante il fatto che la gente voglia arrivare in cima a qualunque costo, persino a spese della vita di qualcun altro”.
 
Juanito Oiarzabal, 49 anni, il veterano basco dell’alpinismo che detiene il record mondiale di 21 scalate oltre gli ottomila metri, risponde a Sir Hillary che non c’è nulla di cui stupirsi. Sentito da Explorersweb, Oiarzabal ha dichiarato che “sull’Everest, la solidarietà non esiste perché lì non esiste più il vero alpinismo”.
 
“Il tetto del mondo è invaso da gente che paga milioni per la cima, non per la scalata – ha continuato Oiarzabal – E la cima è l’unica cosa che gli interessa. Per ottenerla, usano qualsiasi cosa: sherpa, ossigeno, campi, corde. Diventano spietati. Io non li considero nemmeno alpinisti. L’Everest è diventato un circo molti anni fa, ed è sempre peggio. L’unica cosa che posso fare, è non curarmi di quello che succede lassù”.
 
Nella sua lunga ed incredibile carriera alpinistica, Oiarzabal ha visto molte volte la morte in faccia. Nel 2004, si è perso durante la discesa dalla cima del K2, ed è stato salvato in extremis dal compagno Ferran Latorre, che per portarlo in salvo ha rinunciato alla vetta, senza pensarci due volte.
 
Inglis, tuttavia, non è solo. Molti sono dalla sua parte, prima fra tutti la famiglia di David Sharp. La madre ha dichiarato alla stampa inglese che solo David era responsabile di sé stesso, e che Inglis ha fatto bene a mettere in salvo la sua vita, prima di occuparsi di quella di altri.
 
Molti altri esperti himalaisti hanno cercato di attutire i toni della polemica, facendo notare che spesso la gente non si rende conto di quante difficoltà tecniche e di quanto rischioso sia l’Everest.
 
Il dottor Dick Price, medico, alpinista ed esperto in salvataggi sull’Everest, fa notare che “una delle basi del primo soccorso è la valutazione oggettiva del pericolo e delle condizioni del ferito. Solo una volta che si è sicuri di se stessi si può prestare aiuto a qualcun altro”.
 
Il problema, qui, è che gli alpinisti che sono passati accanto a Sharp non stavano scappando da un pericolo, stavano salendo sulla cima. Per loro, l’alternativa non era “mors tua vita mea”, bensì “mors tua, cima mea”. È ben diverso…
 
Sara Sottocornola

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