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Annibale Salsa: sbagliata una politica nazionalistica per governare le Alpi

Antropologo, past president del Club Alpino Italiano, è forse una delle “voci di montagna” più accreditate per parlare di politiche per le terre alte. Ha condotto e conduce ricerche su tematiche relative alla genesi e alla trasformazione delle identità delle popolazioni sulle Alpi, soprattutto in rapporto alle problematiche dello spaesamento e dei rispettivi risvolti psico-antropologici ed etno-psichiatrici. Stiamo parlando di Annibale Salsa.

Per leggere le interviste alle altre “voci di montagna”, qui

In passato hai affermato che dal 1659 la gestione della montagna ha smesso di essere orizzontale per diventare verticale seguendo i bacini dei fiumi e spostando a valle i bacini del potere… che effetto ha avuto questo sulle terre alte?

Ha contribuito a marginalizzare le aree montane, soprattutto con la nascita dei primi Stati Nazionali nel 1800. Dall’800 è avvenuto uno spostamento del potere politico-amministrativo in pianura o nei grandi centri urbani. Così facendo è stata normale la marginalizzazione delle montagne che sono diventate, nel caso delle Alpi, barriera anziché cerniera.

Come andrebbe considerata oggi la montagna?

Oggi si sta ragionando sul progetto di macroregione alpina che recepisce in parte la Convenzione delle Alpi. La macroregione presenta però delle criticità perché mentre la Convenzione delle Alpi circoscriveva un territorio strettamente alpino, il progetto EUSALP comprende invece tutte le regioni miste, anche quelle che hanno più pianura che montagna. Questo comporta ovviamente il rischio che si vada a ricreare una situazione di marginalità per il territorio montano.

 Esiste la necessità di una politica montana a livello nazionale?

Parlando di Alpi, no. Le politiche alpine devono essere sovranazionali. Le Alpi sono spazio transfrontaliero, non sono solo italiane. Chiudere le Alpi in un’ottica nazionalistica è pericoloso perché non è la loro natura.

Per quanto riguarda invece l’Appennino cambia tutto, in primis perché si trova interamente nel territorio nazionale. Le montagne appenniniche sono poi state oggetto di abbandono. Abbandono che ha generato un processo di rinselvatichimento che non sempre va visto come un traguardo, ma come una perdita di cultura. Va visto con capacità di analisi critica, ricordandosi che oltre alla perdita culturale si rischia anche una perdita paesaggistica.

Come andrebbe quindi gestito il bosco?

Abbiamo bisogno di un buon bosco perché la filiera del legno è carente in Italia. Noi abbiamo una grande importazione di legno dall’Austria o, per le Alpi occidentali, dalla Francia.

Noi però abbiamo una buona superficie forestale. Bisogna però metterci mano e attuare un’adeguata gestione forestale. Non è il rinselvatichimento che genera un buon mosco. È la cura del bosco che in qualche modo va a selezionare le specie più richieste, quelle più pregiate. Pensiamo ad esempio al larice o al pino cembro sulle Alpi.

Non dobbiamo lasciare che la natura pensi da sola a rimboschire, perché quello che ne è esce avrà una variabilità biologica, ma è un bosco povero, con un basso profilo. Non è un bosco di qualità. Una delle poche zone italiane con un bosco curato è la val di Fiemme. Il resto è un’avanzata della selva, il bosco è un’altra cosa.

Tra due guerre mondiali c’è stata l’esigenza del rimboschimento, oggi c’è invece la necessità di mantenere i prati e i pascoli. Non si tratta di fare un discorso pro o contro il bosco, ma di fare un’analisi critica del periodo storico.

Da antropologo vedi nelle montagne un luogo di integrazione?

Diciamo che potenzialmente potrebbe esserlo. Bisogna però valutare come verrebbe gestita quest’integrazione. Una gestione di tipo emergenziale sicuramente non sarebbe in grado di favorire l’integrazione.

Bisogna che i nuovi arrivati, come successo nei secoli passati, vengano formati e siano portatori di sapere e conoscenza. Si pensi ad esempio agli albanesi e alla loro esperienza nelle realizzazione dei muretti a secco. Competenze già acquisite nei Paesi di provenienza, molti purtroppo non ne hanno.

Diciamo che per fare integrazione in montagna è necessario che la presenza sia un presenza produttiva, altrimenti rischiano di essere copri estranei

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Un commento

  1. Grazie, prof.Salsa, per le sue analisi sempre lucide ed esaustive.Io ho avuto la fortuna di essere un suo attento ascoltatore durante un corso sull’antropologia montana.

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