La storia di Toni Gobbi, tra prime invernali e scialpinismo, in un libro magnifico
Chi si ricorda oggi di Toni Gobbi? Il volume La traccia di Toni, scritto dal nipote Oliviero Gobbi e da Gian Luca Gasca, racconta l’alpinista, la guida, il commerciante, l’uomo che ha cambiato lo scialpinismo. Bellissime le immagini e l’impaginazione
Ho iniziato a frequentare Courmayeur negli anni Sessanta, quando le boutique delle grandi marche non erano ancora arrivate. Oggi può sembrare fantascienza ma in via Roma, che taglia il centro, c’erano un forno e due negozi di alimentari, la farmacia, un calzolaio, la magnifica libreria Giovannacci, un’edicola che oltre ai giornali vendeva souvenir e giocattoli.
A un’estremità della strada era (ed è) l’imponente Hotel Royal, frequentato dai vacanzieri più agiati. Dall’altra parte, l’una di fronte all’altra, sorgevano la parrocchiale di San Pantaleone e la Società delle Guide, il tempio della fede in Dio e quello della religione laica dei monti.
A unirle era don Cirillo Pession, il parroco che più volte salì a collocare sul Dente del Gigante, una delle vette più aeree delle Alpi, una nuova statua della Madonna, al posto di un’altra che era stata schiantata da un fulmine. Il parroco, in cordata con le guide, saliva a celebrare una Messa lassù. Fede e alpinismo marciavano insieme.
Un altro tempio dell’alpinismo accoglieva gli appassionati dei monti su Via Roma. Dopo breve discesa, sulla destra arrivando dalla chiesa e dalla Società delle Guide, un cartello con la firma stilizzata del proprietario segnalava la Bottega di Toni Gobbi. Ci si andava a comprare, ovviamente, ma anche a chiedere e ricevere consigli.
Chi è abituato ai negozi di abbigliamento e attrezzatura da montagna di oggi, pieni di capi coloratissimi e di aggeggi dalle forme bizzarre, deve togliersi questa immagine dalla mente. A quei tempi in montagna si andava con i pantaloni alla zuava in estate, e con i fuseaux neri per sciare.
Imbraghi e caschi non c’erano ancora, i chiodi erano solo di quattro o cinque modelli, gli scarponi erano neri o color pelle, come i Galibier che mio padre mi regalò a tredici anni condannandomi ad atroci sofferenze. Gli zaini più chic erano i Millet blu, modèle Walter Bonatti. Il rosso c’era solo nelle corde, nei cappelli e nei maglioni.
A rendere speciale la Bottega era il proprietario. Un uomo grande e solido (ma io ero ancora un bambino), serio ma capace di aprirsi in un sorriso, che amava, ricambiato, conversare con i clienti. I programmi delle sue settimane di scialpinismo mi hanno insegnato la geografia delle Alpi. Quando in casa entrò Le mie montagne, l’autobiografia di Walter Bonatti, scoprii che Toni Gobbi era anche un alpinista straordinario. Con Walter, nel 1957, aveva salito il Pilier d’Angle, il gigantesco pilastro di roccia e ghiaccio che chiude la parete della Brenva.
La traccia di Toni (Rizzoli, 240 pagine, 35 euro), scritto da Oliviero Gobbi, nipote del protagonista, e da Gian Luca Gasca, è un libro bellissimo, dove l’impaginazione di Cristina Menotti valorizza un corredo di immagini straordinarie. E’ un viaggio alla scoperta di un uomo di cui i giovani di oggi non sanno nulla. Ma del quale anche i più grandi, quelli della mia generazione e dintorni, ignoravano gran parte degli exploit e delle idee.
Nei primi capitoli scopriamo che Antonio Gobbi detto Toni era nato a Pavia e cresciuto a Vicenza, imparando l’alpinismo e lo sci tra le Piccole e le “vere” Dolomiti. Leggiamo che scoprì il Monte Bianco durante la naia alpina ad Aosta, e la brevissima guerra combattuta nel 1940 tra l’Italia fascista e la Francia.
Toni Gobbi si laureò in Legge, ma non fece mai l’avvocato. A farlo restare a Courmayeur, e a scegliere un futuro, diverso fu un Amore con la A maiuscola. S’innamorò di Romilda Bertholier, bionda, bellissima e appassionata di sci. La sposò nell’autunno 1943, lo stesso anno in cui divenne portatore, l’equivalente di un aspirante guida alpina di oggi.
Lei era figlia di Prospero Bertholier, guida, sciatore famoso e gestore del rifugio del Pavillon, tappa verso il Colle del Gigante, e questo aiutò Toni a diventare Un des nôtres, “Uno di noi” nella Società delle Guide di Courmayeur. Per altri, come Walter Bonatti, quel percorso si sarebbe rivelato più impervio.
Oggi molte guide, in carriera, aprono decine di vie nuove. Ai tempi di Gobbi le cose erano diverse, e per lui l’alpinismo come sfida personale veniva dopo quello con i clienti, e gli impegni come padre, marito e imprenditore. Ma nel suo carnet, racconta il libro, ci sono ascensioni straordinarie.
Sul Bianco, accanto a qualche prima estiva, spiccano le invernali della Cresta des Hirondelles alle Jorasses (con François Thomasset, 1948), della cresta Sud dell’Aiguille Noire (con Enrico Rey, 1949) e della via Major sulla parete della Brenva (con Arturo Ottoz, 1953).
Dopo quest’ultima, come Riccardo Cassin e altri, Toni sperava di essere convocato per la spedizione del 1954 al K2. Non accadde, non fece polemiche, e nel 1958 ebbe un ruolo decisivo nella salita del Gasherbrum IV.
Leggiamo che Gobbi si sentiva “in forma smagliante”, ma che accettò fin dall’inizio che i leader fossero Bonatti e Carlo Mauri. Un anno prima, con un team di guide del Cervino assemblato da Guido Monzino, Toni aveva salito il Paine Grande, 3835 metri, nella Patagonia cilena.
L’ultima parte del libro parla di cultura di montagna e di scialpinismo. Gobbi era socio dell’Alpine Club britannico e del Groupe de Haute Montagne francese, e fu tra i fondatori dell’UIAGM, l’unione internazionale delle guide alpine.

La sua conferenza L’Alpinismo Occidentale visto da un dolomitista, con diapositive, fu ripetuta in 50 sezioni del CAI. Nel 1947, quando fu proposto di vietare la professione di guida ai non residenti in montagna, furono Gobbi e Gigi Panei, un altro “forestiero di Courmayeur” a spiegare che la discriminante doveva essere la passione.
E poi, lo scialpinismo. “Tra il 1951 e il 1970” spiega il libro, “Gobbi organizzò più di 100 settimane di scialpinismo, con oltre 314 clienti che ne completarono almeno una, 148 ne completarono due e 49 cinque”. “La stagione iniziava a marzo e copriva per tutta la primavera. Per tre mesi, ogni settimana, Toni tornava a casa il sabato per ripartire la domenica”.
A rendere le Settimane popolari erano l’organizzazione perfetta, la scelta di mete dalla Haute Route Chamonix-Zermatt alle Dolomiti, ma anche alla Groenlandia e al Caucaso. Toni c’era sempre, anche se coadiuvato da altre guide, a battere la traccia in salita e in discesa. Sapeva fare gruppo, anche in seguito, con incontri e altre iniziative.
Sembra incredibile, ma è proprio un’uscita di scialpinismo, il 15 marzo 1970, a costare la vita a Toni Gobbi. Quel giorno dieci clienti e quattro guide salgono verso i 2969 metri del Sassopiatto. Usano fino a un certo punto le pelli, proseguono in cordata, raggiungono la vetta.
In discesa, prima di tornare agli sci, una valanga trascina la prima cordata per 300 metri. Con Gobbi muoiono tre clienti, Camilla Turati, Raffaele Polin e Antonio Moneta, sopravvivono Mario Belli e il portatore Mirko Minuzzo. Il 22 marzo, il funerale di Toni a Courmayeur è affollato. Ci sono gli alpinisti famosi, i clienti affezionati, i paesani.
“Mi ha sempre stupito la morte di Gobbi. La prudenza che aveva lui non l’aveva nessuno, per tutto e su tutto. Se è successo a lui può succedere a tutti. Puoi essere esperto quanto vuoi, ma ci vuole fortuna” commenterà qualche anno dopo Renzino Cosson, guida alpina, rifugista e a lungo responsabile del Soccorso Alpino valdostano.









