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Piste più lisce e più veloci. Allora ti obbligo a mettere il casco

La legge entrata in vigore l’1 novembre riguarda solo lo sci in pista. Un provvedimento certamente condivisibile ma la domanda è: che idea di montagna stiamo costruendo?

È entrata in vigore la legge che estende anche ai maggiorenni l’obbligo del casco sulle piste da sci. Una misura che rientra in quella crescente richiesta di protezione che attraversa ogni ambito della nostra società: la sicurezza come diritto da esigere, ma anche come dovere da imporre. Una società ossessionata dal rischio, che cerca nella norma ciò che ha perso nella relazione, nel contesto, nella consapevolezza.
Ma di quale rischio parliamo? E da dove nasce?

Le piste sono diventate sempre più facili, larghe, lisce, perfettamente battute. Si impara in fretta a sciare, gli sci curvano da soli, la tecnica della piega – quella che si insegna come fine ultimo – trova nella velocità il suo unico vero appagamento. Più liscia, più veloce. Più veloce, più pericolosa. Ma allora ti obbligo a mettere il casco.

Fino a qualche anno fa, una pista ondulata, a tratti gibbosa, costituiva un freno naturale. Le irregolarità del terreno – mai troppo severe, mai totalmente prevedibili – imponevano attenzione, moderazione, scelta della traiettoria. Oggi, con la superficie perfettamente spianata e compatta, quegli ostacoli sono stati rimossi. Ma tolto il freno naturale, si toglie anche la misura e anche chi non sa frenare, va.

Così, in parallelo, si potenziano gli impianti, si moltiplica la portata oraria, si riversano migliaia di corpi sulle piste. Sciami. E se poi due si scontrano, se uno sbanda, se cade – ecco che interviene la sanzione, il ritiro dello skipass, magari persino l’autovelox sulle piste da sci.

Un cortocircuito. Di senso, di responsabilità. Perché si promuove, spesso senza ritegno, la movida in quota: musica sparata, balli sui tavoli, bollicine e bombardini a fiumi. Poi però ci si stupisce se qualcuno sfreccia ubriaco a tutta velocità, se perde il controllo. Si portano in montagna modelli urbani – quelli dell’intrattenimento a ogni costo – e poi si applicano le stesse regole del piano per contenere lo straripamento. Ma la montagna non è un teatro allestito è altro.

La montagna, per chi la conosce, è spazio di libertà. E la libertà – quella vera – è una forma esigente di disciplina. Non si improvvisa, richiede misura, ascolto, conoscenza dei propri limiti, consapevolezza del contesto.
Oggi quello spazio si restringe, si fa più stretto, imbottito, assicurato, incanalato. E pericoloso proprio perché deprivato della sua complessità.

Ci si sente al sicuro, ma non lo si è. Allora la domanda non è: “Casco sì o casco no?”, ma “Che idea di montagna stiamo costruendo?”, e ancora: “Che tipo di sciatore, di cittadino, di persona coltiviamo quando la relazione tra rischio e responsabilità viene delegata a un regolamento?”.

La risposta non sta nel casco. Sta nella testa.

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