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Maestri di sci della Lombardia in Colorado: alla ricerca di modelli o della neve perduta?

Un’iniziativa sorprendente e che obbliga a delle riflessioni. Forse per aggiornarsi sarebbe altrettanto (o più) utile visitare le stazioni sciistiche ormai chiuse da tempo o quelle tenute in vita artificialmente

Ho appena ricevuta la mail del Collegio Regionale Maestri di Sci della Lombardia che invita al versamento della quota associativa per l’anno prossimo. Da anni non esercito più la professione di maestro di sci sulle piste, ma continuo a sentirmi parte di quella comunità che ha costruito sulla neve — quella vera — un mestiere, un modo di stare al mondo. Mi piace mantenere quel legame, l’idea d’essere maestro di sci di montagna e di appartenere a chi ha fatto dello spazio in salita il proprio spazio d’azione, dove scivolare leggeri, rende felici.

Eppure, scorrendo le ultime comunicazioni del Collegio, mi sorprende una proposta che sembra arrivare da un altro mondo.

Scorrendo il calendario degli aggiornamenti professionali obbligatori per mantenere l’iscrizione all’Albo, trovo una proposta singolare: un aggiornamento dal 24 al 29 novembre prossimi ad Aspen, in Colorado, attivabile al raggiungimento di venti iscritti.

Un viaggio intercontinentale per aggiornarsi sulla professione, un’iniziativa che nasce, immagino, da buone intenzioni — esplorare altri modelli, conoscere altre stazioni, aprirsi a nuovi orizzonti — ma che suona, oggi, un po’ stonata. A parte l’impronta carbonica, colpisce la distanza — geografica e simbolica, e forse anche etica — la dismisura di un viaggio oltreoceano per un aggiornamento ordinario.

Un tempo il maestro, uomo o donna, era legato alla neve che cadeva dal cielo, radicato alla montagna, e con il proprio mestiere contribuiva a far vivere sé stesso e la comunità quassù. Oggi il suo terreno d’azione si è spostato, la neve è diventata un prodotto, la stagione un cantiere artificiale, la montagna un laboratorio tecnico di sopravvivenza economica.
Siamo diventati maestri della rincorsa alla neve programmata.

La totalità delle stazioni italiane non potrebbe funzionare senza l’intervento massiccio dell’innevamento artificiale e, ormai, anche dei nuovi generatori di neve, macchine capaci di produrre neve sopra lo zero, che permettono di mantenere in vita piste e impianti là dove l’inverno naturale ha ceduto.

Qualcuno potrebbe dire: che male c’è? In fondo, i maestri insegnano a scivolare su una superficie bianca, sia essa dono del cielo o frutto della tecnologia. Eppure, è proprio lì che si consuma lo scollamento, tra la materia viva e la sua copia artificiale. Tra la neve che racconta un tempo e una stagione, e quella che simula un eterno presente di efficienza e consumo.

Viene da chiedersi quanto potrà durare questa rincorsa. Forse, invece di volare oltreoceano in cerca di modelli “migliori”, potremmo compiere un pellegrinaggio più vicino, visitare le decine di stazioni italiane chiuse negli ultimi decenni per mancanza di neve, in grave sofferenza o in ostinato “accanimento terapeutico” per tenerle ancora in vita.

Lì, tra skilift arrugginiti e strutture cadenti, si potrebbe trovare un insegnamento più utile di qualsiasi lezione sulle nevi del Colorado, un pensiero lungimirante di riconversione, di misura, di ascolto del limite.

Resta una domanda, forse la più urgente: che futuro attende i giovani maestri? Potranno ancora contare su stagioni piene, su una professione stabile, o saranno sempre più figure intermittenti, “weekendisti” della neve, cittadini in trasferta?

Non ho risposte certe. Forse, prima di guardare lontano, conviene tornare sulle nostre montagne e capire cosa la neve ancora ci dice, quando — raramente, ma davvero — scende dal cielo.

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