Turismo

Il borgo: il mondo sospeso di Gimmenwald, con la Jungfrau e il Monch di fronte agli occhi

Il villaggio dell’Oberland Bernese, in Svizzera, ha detto tre volte no alle auto. Così ha salvato la sua anima e regala agli ospiti giornate senza frenesia. E senza rumori

Sciac… sciac… sciac… Il ritmo antico della falce si confonde con i passi cadenzati che, uscendo dal bosco, mi portano davanti a Gimmelwald (1.367 m). Una manciata di case in legno annerite dal tempo, qualche recinto per le capre, un’ala colorata di parapendio che galleggia nell’aria, e tutt’intorno pareti rocciose severe, ghiacciai che sembrano sentinelle. Lui falciava il prato, lei con il rastrello lo ordinava in mucchietti ordinati. Sciac… sciac… frush… frush… Poi, finito il mucchietto, la contadina posa l’attrezzo e alza lo sguardo alle cime innevate. Rimane immobile, assorta, come se la montagna l’avesse chiamata a sé. In quel gesto c’è l’essenza di questo villaggio: qui la montagna non è cartolina, è compagna di vita.

A Gimmelwald non si arriva in auto. Non ci sono strade: si sale a piedi o con la funivia. È un villaggio di appena un centinaio di abitanti, sei fattorie ancora attive, fienili odorosi e prati che in estate vibrano del frinire dei grilli. Vivere qui significa accettare scomodità quotidiane, ma anche scegliere un ritmo che altrove è scomparso.

«È una vita dura, semplice – racconta Sabine Waterhouse, che gestisce con il marito David la Pension Gimmelwald – Gimmelwald rimane sempre se stessa, con i turisti o senza. Questa essenzialità ti radica, ti ricorda ciò che conta davvero. E i turisti che arrivano spesso restano spiazzati: qui non c’è il turismo patinato di Wengen, Grindelwald o Mürren. Qui c’è verità».
Verità che non è marketing, ma resistenza.

«Tre volte abbiamo votato se volevamo una strada – ricorda Olle Eggimann, maestro in pensione e cantante lirico, originario di Berna –. Tre volte la maggioranza ha detto di no. Certo, sarebbe più comodo, ma una strada distruggerebbe il villaggio. Se vuoi uccidere un paese basta chiudere la scuola o costruirgli una strada».
La scuola, infatti, non c’è più. Olle e sua moglie ci hanno insegnato per venticinque anni: «Abbiamo cresciuto generazioni intere, visto bambini diventare adulti. La scuola era il cuore di Gimmelwald. Quando l’hanno chiusa è stata una ferita. Perché senza scuola, le famiglie fanno fatica a restare».

Oggi Olle vive in una casa che ha ristrutturato con le proprie mani, dove ospita i turisti in due stanze e un piccolo appartamento. «Siamo rimasti perché qui c’è qualcosa che altrove non c’è: il silenzio, gli animali, i campi. E quel legame profondo con il paesaggio che ti salva».
Il turismo a Gimmelwald arriva, ma non travolge. A far conoscere il villaggio al mondo è stato l’autore americano Rick Steves, che lo ha definito “il più bel villaggio della Svizzera” in una delle sue guide. «Da allora il 90% dei turisti sono americani – spiega Olle – Arrivano convinti di vivere un sogno. Poi chiedono a che ora chiude il paese, o a che ora spengono le cascate. Sono convinti di essere in una Disneyland a tema Heidi! All’inizio sorridi, poi capisci che forse il loro stupore è proprio questo: scoprire un posto dove la vita non è costruita per loro, ma semplicemente è».

Nemmeno Sabine e David sono originari di qui. Lei tedesca, lui inglese, hanno mollato tutto per aprire la Pension e produrre birra artigianale. L’hanno chiamata Schwarz Mönch, come la montagna che domina il loro terrazzo, ed è arrivata a vincere premi nazionali. «Molti ospiti si lamentano perché le stanze non hanno il bagno privato – dice Sabine – Ma noi vogliamo restare quello che siamo. Se trasformassimo tutto in camere anonime, perderemmo l’anima. Chi torna, lo fa proprio per questo: perché qui trova carattere, trova verità».
In inverno la neve abbonda, ma porta con sé isolamento. «Novembre e marzo sono i mesi più difficili – confessa Olle –. Non è più estate, non è ancora inverno. Il tempo è brutto, la funivia chiude per revisione e la vita si complica. Devi fare giri lunghi, prendere bus e altre funivie. Ma ci si abitua».

Il no alle auto e a un progetto urbanistico che avrebbe stravolto il paese

Eppure, è proprio l’abitudine a rendere Gimmelwald resiliente. Negli anni Sessanta un progetto urbanistico voleva trasformarlo in un centro da 1.400 abitanti, con case nuove e perfino un inceneritore. Fu l’Università di Berna, durante uno studio sotto la neve di marzo, a dichiarare la zona troppo esposta a valanghe. Una mossa che, più che proteggere dai normali eventi atmosferici, salvò il villaggio dalla speculazione edilizia. «Il rischio naturale qui è reale, ma come ovunque in montagna – dice Olle –. Il punto è non forzare la natura, non piegarla. Questo ci ha salvato dal diventare un villaggio qualsiasi».

Oggi Gimmelwald è poco più di cento anime. Non ci sono cinema, né negozi di lusso, né macchine. C’è una vita che può sembrare scomoda, ma che per molti turisti è un lusso raro: silenzio, spazio, respiro. «Sempre più persone vengono qui per questo – dice Sabine –. Non per gli impianti o i resort, ma per ascoltare le campane delle mucche, per vedere una contadina che falcia a mano, per riscoprire un ritmo che avevano dimenticato. Ma abbiamo messo dei paletti ben precisi: massimo 200 posti letto per i turisti. Non vogliamo diventare come quelle località dove i visitatori sono 10 volte tanti gli abitanti».

Gimmelwald resiste, sospeso tra memoria e futuro. Un villaggio piccolo e fragile, ma capace di opporsi alle semplificazioni della modernità. E forse il suo segreto sta tutto in uno sguardo: quello della contadina che, per un istante, smette di falciare per contemplare le montagne. In quello sguardo c’è la fatica, la dignità, l’incanto. E la promessa che, finché ci sarà chi lo porterà negli occhi, Gimmelwald continuerà a vivere.

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