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Alessandro Gogna: l’unica sicurezza in montagna è la libertà di scegliere

Alessandro Gogna (Photo courtesy grivel.com)
Alessandro Gogna (Photo courtesy grivel.com)

MILANO – “Più uno si affida alle misure di sicurezza esterne, meno si affida alla sua sensibilità e alla sua soglia di attenzione. Questo, oltre a ledere la personale libertà di scelta, deresponsabilizza le persone rischiando, paradossalmente, di compromettere la sicurezza in modo ancora maggiore”. Questa la riflessione che ha fatto nascere la necessità di creare un “osservatorio per la libertà in montagna”, che presto sarà riconosciuto da Cai e Uiaa. Alessandro Gogna, noto alpinista e scrittore italiano, è tra i fondatori del gruppo e ci spiega, in questa intervista, obiettivi e caratteristiche di questo nuovo ente.

Gogna, perché la necessità di creare un osservatorio per la libertà in montagna?

Da un po’ di tempo a questa parte in Francia si sono accorti che la nostra società ha la tendenza a rendere tutto ciò che ci circonda “sicuro”, tanto che si parla di “société sicuritaire”. Da una parte ha dei vantaggi perché c’è una preoccupazione molto più forte di un tempo verso la sicurezza non solo a livello sportivo ma anche per esempio sul lavoro, nei locali pubblici e in altri campi. D’altra parte però l’applicazione alla lettera di queste cose porta ad un eccesso: quello di pensare che la nostra sia una società sicura quando invece continua a non esserlo. Perché uno più si affida alle misure di sicurezza che sa che ci sono in giro e meno si affida invece alla sua sensibilità personale e alla sua soglia di attenzione.

In montagna tutto questo è ancora più evidente.  Tu puoi controllare finchè vuoi friends , corde, materiali, puoi avere gps, telefonini,  la segnaletica in ordine, notizie aggiornate sul meteo e sul percorso: tutti questi mezzi sono utili, magari necessari, ma non sufficienti. Se uno li prende come oro colato e pensa che possano sostituire la sua immaginazione personale, la sua intelligenza e la sua attenzione, è finita.

La libertà è il contrario di questo concetto. A mio modo di vedere è la libertà di esprimersi, sbagliare e scegliere. Ma se tu ti siedi e ti affidi ai mezzi, limiti la tua libertà evitando di fare delle scelte. Bisogna ricordarsi che la montagna è uno specchio di quello che hai dentro e che i mezzi sono necessari ma non sufficienti.

Quindi, paradossalmente, non associate la libertà al rischio, ma ad una maggior sicurezza?

Si certamente, la maggior sicurezza secondo noi è quella interiore determinata dalla presa di responsabilità e dall’aver fatto delle scelte. La “société sicuritaire” tende senza volerlo a deresponsabilizzare le persone. Questa è la base filosofica, che dice: “no, dobbiamo ribellarci a questa progressiva deresponsabilizzazione”. E poi ci sono i problemi “concreti” come le proibizioni e i tentativi di divieto a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e per cui stiamo correndo dei “pericoli”. Parlo di decreti, ingiunzioni, ordinanze principali che proibiscono la discesa di quel canalone perché è scesa una valanga, o che chiudono il Cervino perché è scesa una franetta, o chiudono il paretone di Arnad perché un istruttore di roccia è stato ucciso dal crollo di un masso, come è successo pochi mesi fa, o iniziative assurde come quella del patentino per lo scialpinismo.

Che cosa fate in questi casi?

Queste problematiche van valutate caso per caso. Ecco perché già 2 anni fa in Francia è nato questo osservatorio per la libertà in alpinismo e in montagna. Faccio degli esempi. Ad Arnad, dove a dispetto di sicurezza e spit è venuto giù un masso ed è morta una persona, il sindaco che aveva firmato la risistemazione della parete ha ordinato la chiusura. In questo anche io, fanatico sostenitore della libertà, sono d’accordo sulla chiusura (breve) per condurre i necessari accertamenti, perché la parete è stata attrezzata dall’uomo. Ma la chiusura di un canalone non ha senso perché nessuno c’entra con le sue condizioni.

Che cosa è esattamente l’Osservatorio, quindi?

E’ un gruppo di privati appassionati, gente più o meno esperta in diversi campi (alpinisti, giudici, avvocati, medici, giornalisti), che in Italia è nato il 19 maggio a Porretta Terme. E’ stato fondato da una decina di personaggi tra cui anche io. Poi ci sono il presidente Caai Giacomo stefani, il presidente delle Guide Alpine Erminio Sertorelli, il Cnsas che ha aderito il giorno dopo, tutte le scuole di alpinismo nella persona di Maurizio Dalla Libera, l’addetto stampa Cai Piergiorgio Oliveti e altri. Ci allargheremo, comunque. Chiunque voglia darsi da fare, si faccia avanti, spazio ce n’è. Al momento siamo in attesa di un riconoscimento del Cai, che ci è già stato promesso dal Presidente perché tutti si sono resi conto che era fondamentale. A settembre su Lo Scarpone ho pubblicato un questionario con alcune domande sulla sicurezza e ho ricevuto 1500 risposte per email e lettera, un plebiscito per la libertà incondizionata. 1500 risposte sono tante, perché dovevano stampare il questionario, compilarlo, scansirlo, spedirlo, non è un “mi piace” “non mi piace”. Il Cai ha deciso che quindi possiamo essere utili.

Vorrebbe diventare un organo consultivo, o una lobby?

Una lobby culturale, certo. Vogliamo far sentire la nostra voce, parlare ai convegni, richiamare l’attenzione della gente. Vogliamo intervenire nelle polemiche, per esempio quelle seguite alla frana del Pelmo che uccide i soccorritori, inviare comunicati stampa e pareri, darci da fare perché l’informazione venga corretta in un determinato senso.  Un mese fa per esempio a Lecco c’era il convegno “falesia sicura” e noi abbiamo contattato gli organizzatori perché secondo noi non c’era nel programma un intervento che dicesse che in falesia e in montagna la sicurezza al 100% non ci sarà mai e invece questo va detto a voce forte. Qui giochiamo con la vita delle persone, non dobbiamo pensare solo al marketing.

Spesso questo tipo di chiusure vengono imposte per autotutela di chi è proprietario…

Ecco questo è un altro problema della société sicuritaire: per qualsiasi incidente ci deve sempre essere un responsabile o un capro espiatorio, è diventato la prassi. Una volta i prof portavano i ragazzini in gita, oggi è un’impresa impossibile, i professori hanno paura perché se si sbucciano un gomito i genitori fanno un casino mai visto. Gli incidenti succedevano 40 anni fa e succedono oggi, ma oggi c’è un accanimento terribile. Non dico che non bisogna preoccuparsi, ma tutte le persone che lavorano in questo campo anche le commissioni giovanili del Cai dicono sta cose, è un’esagerazione. Per questo poi diventa necessario chiudere le montagne, per salvarsi la pelle, non per offrire sicurezza. Le chiusure non servono assolutamente a niente, la gente continua ad andare se vuole, non risparmiano incidenti e comunque non è che l’amministrazione migliora grazie alle chiusure. Se uno vuole può scrivere un cartello, “vi sconsigliamo di scendere di qua”. Su un sentiero dismesso, vs bene mettere un cartello con scritto “è dismesso se andate è a vostro rischio e pericolo”. Ma non “è vietato” come a voler eliminare ogni rischio: allora tutte le vie alpinistiche dovrebbero essere vietate.

Cosa pensate della campagna “Sicuri in montagna” del soccorso alpino?
Apprezziamo il loro lavoro.  Ma tutto dipende dal tono: può andar bene dire cerchiamo maggior sicurezza, va benissimo, ma non “saremo sicuri”. Va detto che c’è in margine di insicurezza che rimane, con chiarezza, non si può dire che si vuole fare in modo che Sig.Rossi vada sicuro in montagna ovunque lui voglia. Scherziamo? Non è possibile. Dov’è la liberta del Sig.Rossi di avere un’avventura?

Credete che venga usato male il termine sicurezza forse, al posto di responsabilità?

Sì, responsabilità va bene, è una presa di coscienza dell’individuo. La sicurezza invece, intesa come venuta da fuori, implica per l’individuo un affidarsi a strumenti esterni che rischia di ottenere l’effetto contrario.

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