BERGAMO — E’ la prima impressione che se ne trae camminando al campo base tra le decine di campi multietnici, multicolori, multi-odori e multi-rumori. O a Colle Sud, tra tende acquattate sotto le pile di bombole e roba nuova e vecchia che si rigenera, rendendolo l’immondezzaio più in alto della Terra. L’Everest è però uno dei luoghi naturali più “potenti” e stupefacenti della Terra. L’Everest è anche un grande palcoscenico. Il più alto. Sul quale si sono esibiti di certo attori di esperienza, di espressività artistica eccelsa e di grande capacità tecnica e professionalità. Da Hillary a Bonington, a Messner…..e pochi altri grandi per davvero.
Su quel palcoscenico ci salgono poi tutti quelli che hanno il sogno di guardare il mondo da lassù, per ragioni nobili o banali, come il raccontarlo al bar e alla sezione del club di appartenenza, per atti di purificazione o di redenzione, per ambizione, per scopi motivazionali, personali o collettivi. Il perché conta quel che vale per ognuno. Sono ormai in moltissimi. E’ il cosiddetto alpinismo per tutti.
Certo è poi che l’avventura e l’alpinismo di livello stanno oggi probabilmente su altre montagne, pareti e stagioni. L’alpinismo, giova ricordarlo, è e rimane uno sport spettacolare, che si trascina dietro anche qualche interesse economico, seppur marginale perfino rispetto all’economia della montagna, ma che esprime in ogni caso un forte valore promozionale per i luoghi dove si pratica. Comunque è un “gioco”, che neppur per un momento dovrebbe trascendere nel disprezzo di fazione che recentemente (talvolta me lo sono sentito negli anni sulla pelle) ha augurato perfino disgrazia e morte all’antagonista ideologico. Purtroppo accade.
E’ vero che quando si parla di Everest i media prestano molta più attenzione rispetto al parlare di Makalu o Manaslu. Anche se su queste cime l’arte dell’andare in montagna ha avuto alti livelli, la loro attrazione mediatica è scarsa.
I Nepalesi, uno dei popoli più poveri e inascoltati del mondo, quando vogliono far sentire la propria voce usano il megafono dell’Everest. Lo hanno fatto convocando un consiglio dei ministri vicino al Campo Base. Lo vogliono fare andando a misurare anche loro la quota esatta della vetta, visto che l’Everest è anche loro, nonostante l’abbiamo già fatto noi italiani, gli americani e i cinesi.
Anche il potente governo cinese usa l’Everest come megafono, organizzando ogni tanto salite di stato, come quando fu portata in vetta la fiaccola in occasione delle Olimpiadi di Pechino.
Ben più modestamente, al sottoscritto hanno rimproverato (a volte con violenza) di aver installato un laboratorio scientifico al campo base dell’Everest e di usare l’immagine del grande monte per promuovere le attività di ricerca che vi si svolgono. Il “sublime” Kurt Diemberger difese il laboratorio con pragmatismo affermando semplicemente che era meglio averlo installato lì dove il turismo e i lodge sono già molti e la wilderness compromessa.
Io sull’Everest non ci sonomai salito. Nonper scelta, ma è capitato così. Forse non avevo voglia di far fatica fin lassù in cima. A volte però penso che mi sarebbe piaciuto. Altre che mi sarebbe stato utile: dire che si è arrivati in cima all’Everest fa comunque bene all’immagine.
Avrei voluto in ogni caso arrivarci senza ossigeno, in una bella limpida giornata, con integrità fisica e lucidità, con almeno un compagno con cui festeggiare, con il tempo per guardare il mondo da lassù avendo la consapevolezza di essere nel punto più alto della terra e che tutt’attorno la formidabile stupefacente bellezza della natura può essere riassunta in quel punto unico e simbolico della vetta e nel cervello di chi è lì. Edonismo estremo e…innocuo. Sarebbe stato bello, credo difficilissimo.
Basta. Mi sono messo a scrivere perché volevo dire che l’Everest è la montagna palcoscenico per eccellenza. Che ci si interpretano grandi opere e commedie, drammi e operette, c’è chi se la suona e se la canta. Chi va sull’Everest ci va per lavoro, sport, vanità, follia, sfida, esaltazione, per nulla… Aggiungete quel che vi pare. L’uomo e l’alpinista lassù ne fanno di cotte e di crude.
Ma non ditemi che per questo l’Everest non è un luogo evocativo, magico, un “santuario” della natura. Lo ha sancito perfino l’Unesco, ben 27 anni prima di averlo deciso finalmente per le Dolomiti. Un luogo sacro, per i popoli e le culture che ha accolto ai suoi piedi, per l’unicità fisica, naturale ed estetica che esprime e che tutti, proprio tutti comprendiamo. Un luogo che va rispettato.
Pur essendo un “santuario” è però certo che è lecito andare in vetta con il proprio ossigeno portato sulla schiena di uno sherpa, con una telecamera o una stazione satellitare nello zaino, una bici sulle spalle, atterrarci con un elicottero, metterci uno strumento per delle misure, lasciarci un cadavere o indifferentemente bombole di ossigeno, tende, feci, thermos o bandiere tibetane di preghiera. E’ lecito!
Forse dovremmo chiederci se è giusto. Per rispondere dovremmo ritrovare la misura del buon senso e dell’equilibrio, lo stesso che consente agli umani, con rispetto, di salire con un magico gioco di contrapposizione di forze fisiche e di volontà fin sulla vetta delle montagne più alte della Terra.
Credo che pensarci non sia così sbagliato e non leda gli interessi e l’onore di qualcuno.
Mettendo in buon ordine le priorità. Innanzitutto gli interessi dei nepalesi, che sono a casa loro e hanno diritto di cercare anche attraverso l’Everest una possibilità di sviluppo e benessere, senza essere costretti a svendere e a deprezzare troppo, per “eccesso di sfruttamento intensivo” il valore delle loro “merce”.
Poi, parliamo di alpinismo, sport, scienza, cultura, turismo, record, esibizionismo…