
L’undici novembre scorso in Valmalenco un imponente pilastro di roccia è precipitato a valle, cancellando in più punti la strada che sale dal fondovalle della Valmalenco verso Franscia e Campo Moro. Tremila metri cubi di scisto sono crollati da un versante geologicamente complesso, fatto anche di serpentinite, marmi e antichi vuoti estrattivi di talco, quarzo e amianto. Un cedimento improvviso soltanto in apparenza, che ha reso visibile ciò che per un geologo è un processo ordinario e inesorabile.
Per fortuna il movimento era monitorato da tempo: una rete di fessurimetri posizionati lungo le principali fratture ha permesso di cogliere per tempo le deformazioni dell’ammasso roccioso e chiudere la strada prima del collasso. Ora serviranno mesi per ristabilire la viabilità su quella rotabile ardita, costruita negli anni Cinquanta per gli impianti idroelettrici, unica via d’accesso per le attività in quota.
Un danno evidente per il turismo e per l’economia locale. Ma da questa difficoltà possiamo provare a leggere un’opportunità: immaginare un inverno diverso. Un inverno che non comincia a motore acceso, ma a piedi.
Per molti sci-alpinisti ed escursionisti la routine era ormai consolidata, raggiungere in auto i duemila metri di Campo Moro, calzare gli sci e prendere il largo verso gli spazi grandiosi del Pizzo Scalino. Ora che la strada è interrotta, possiamo provare a rallentare, rinunciare alla toccata e fuga giornaliera, prenderci il tempo necessario per attraversare la montagna dal basso.
Due, tre giorni d’avventura. Un viaggio che parte dal fondovalle, attraversa i piani altitudinali uno dopo l’altro e ci rimette in sintonia con il ritmo dell’ambiente. Un cammino che riporta l’esperienza ad assomigliare a quella degli albori dello sci-alpinismo, quando il Rifugio Zoia – costruito nel 1929, decenni prima della strada – era raggiungibile soltanto dopo una vera salita. È ancora lì, come allora, un rifugio caldo e sicuro a cui approdare dopo la prima giornata di cammino da Lanzada, o dopo la traversata in quota che arriva da San Giuseppe, nella valle di Chiareggio. Il mattino seguente, sopra il rifugio, i pendii immacolati del Pizzo Scalino si aprono come campi d’esplorazione liberi da ogni ansia, si sale fin dove portano le gambe, i desideri, l’intuizione del momento.
Forse si faranno meno curve, ma non meno incontri, non meno silenzio, non meno bellezza. La montagna, quando smettiamo di inseguirla, torna a camminare al nostro passo.
In questa fase di attesa della necessaria ricostruzione potremmo approfittare per sperimentare davvero qualcosa di nuovo, e immaginare una diversa mobilità in futuro. Perché, se siamo sinceri, fa impressione pensare che fino a poco tempo fa non mancava chi voleva realizzare una cabinovia da Franscia verso il comprensorio sciistico (opera poi stralciata per vincoli ambientali), con migliaia di auto concentrate su una strada già fragile, esposta, perennemente a rischio. Come se la risposta ai problemi dei versanti instabili fosse… aumentarne il carico sottostante.
Provare a pensare che un singolo minibus può trasportare gli occupanti di molte vetture e liberare dai parcheggi intere cataste di lamiere, oltre ad esporre molto meno le persone ai pericoli di crollo, che non potranno mai essere del tutto eliminati. È un inizio semplice, concreto. Perché non provare ad agire sui comportamenti, e non soltanto sulle opere di contenimento e difesa?
Il Rifugio Zoia a 2021m, ai piedi dello Scalino, aprirà comunque per le festività di Natale e forse per altri periodi dell’inverno. Sarebbe un bel gesto, in questo periodo sospeso, dedicargli due giorni, rinunciare alla frenesia dell’uscita mordi e fuggi e regalarsi uno spazio di quiete, un tempo più umano, verso le porte del Bernina. La montagna che abbiamo sopra la testa non chiede viaggi esotici per essere scoperta. Basta guardarla con occhi nuovi.
Basta ricominciare a piedi.