Quei bambini nel bosco che cancellano la cultura dell’iPhone. E fanno paura
Togliere i figli ai genitori che hanno scelto di vivere in un casolare isolato dell’Abruzzo: una proposta che divide. E che sottolinea i sempre più diffusi timori nei confronti di chi effettua scelte fuori dagli schemi
Fino all’età di dieci anni mio fratello e io giravamo per il paese scalzi. Sull’asfalto, sulla terra, tra i boschi. L’unica zona da evitare era la rimessa degli attrezzi di mio padre, perché sapevamo che lì c’era sempre qualche chiodo dimenticato per terra.
Complice il fatto che mia madre gestiva un locale in una località alpina molto turistica e d’estate aveva poco tempo per badare a noi, passavamo le giornate un po’ come dei selvaggi. Ci arrampicavamo sui massi, ci tuffavamo nelle pozze d’acqua ghiacciata e correvamo a piedi nudi, appunto.
Un giorno una turista di Milano, che trascorreva le vacanze nel mio paesino, si presentò da mia madre con un paio di scarpe nuove per me e mio fratello. «Non mi ringrazi, signora, lo faccio con piacere». Mia madre, divertita, le fece notare che di scarpe ne avevamo a dozzine, ma semplicemente ci piaceva di più stare scalzi.
Mi è tornato in mente quell’episodio della mia infanzia in questi giorni, quando una piccola famiglia che vive nei boschi dell’Abruzzo è diventata simbolo di una questione più grande. Catherine Birmingham e Nathan Trevallion, lei australiana e lui inglese, hanno scelto da anni una vita essenziale, a contatto con la natura, in un casolare isolato nei boschi di Palmoli, in provincia di Chieti. Con loro ci sono i tre figli, cresciuti tra orti, animali, pannelli solari e lezioni domestiche. Un’esistenza che la coppia rivendica come libera e consapevole, ma che per le istituzioni solleva interrogativi sul benessere e la sicurezza dei bambini.
Tutto è iniziato dopo un episodio di intossicazione da funghi, che ha portato la famiglia in ospedale e, di conseguenza, sotto la lente dei servizi sociali. Da lì è scattata la segnalazione alla Procura per i minorenni dell’Aquila, che ha chiesto la sospensione temporanea della responsabilità genitoriale, ritenendo che l’isolamento e la mancanza di servizi di base potessero rappresentare un “pregiudizio grave” per la crescita dei piccoli. Il caso è ora al vaglio del tribunale, che dovrà decidere se e in che misura i bambini potranno restare con i genitori.
Un dibattito acceso, tra disinformazione e voglie di libertà
La storia ha acceso un dibattito acceso e polarizzato. Da una parte chi difende la scelta della famiglia, vedendola come un ritorno all’essenziale, una forma di resistenza dolce a un mondo sempre più artificiale. Dall’altra chi ricorda che libertà e responsabilità non sempre coincidono, e che i minori hanno diritto a cure, istruzione e sicurezza, anche quando i genitori scelgono di vivere fuori dagli schemi.
Catherine e Nathan respingono le accuse: raccontano di seguire i programmi scolastici attraverso l’istruzione parentale, di curare l’alimentazione dei figli con attenzione e di volerli crescere “liberi, ma non abbandonati”. Dicono che l’aria dei boschi è la loro casa, e che la vera povertà non è quella materiale, ma quella di chi ha dimenticato come si vive con poco.
Guardando le immagini di quei bambini tra i boschi dell’Abruzzo, non ho potuto non tornare indietro di qualche anno. Certo, io a differenza loro andavo a scuola, avevo l’elettricità, la tv e tutti i comfort, ma la vera gioia era tornare ogni sera a casa con i piedi neri, sporchi fino alle caviglie, qualche bastoncino nei capelli e le ginocchia sbucciate perché mi ero lanciata in bici o di corsa giù per qualche poderale sassosa.
E come la signora che voleva regalarci delle scarpe perché non capiva perché fossimo scalzi, noi oggi siamo la società che mette un iPhone in mano a un bambino dell’asilo e non capisce quanto sia più rischioso che fare la cacca in un gabinetto di paglia nel bosco.
Abbiamo perso la misura, la proporzione tra ciò che protegge e ciò che imprigiona. Vivere nei boschi, oggi, diventa sospetto; crescere iperconnessi, invece, sembra normale. Abbiamo paura della terra sotto i piedi, dell’acqua fredda, del silenzio. Ci rassicura più una connessione Wi-Fi che un fuoco acceso.
Mi sento di tranquillizzare chi teme che quei bambini cresceranno come adulti disadattati: lo saranno molto meno loro, con i piedi neri di terra e gli occhi pieni di cielo, che noi, chiusi dentro case troppo pulite e vite troppo ordinate.
Nota della redazione: Le telecamere del TG1 hanno mostrato una realtà ben diversa da quella illustrata da chi ha proposto l’affido dei bambini: l’elettricità viene assicurata da un pannello solare con sistema d’accumulo, l’acqua da un pozzo e, quella potabile, da una fontana vicina, una stufa a legno e un camino garantiscono corrette temperature. L’istruzione (scuola parentale, con un test di fine anno in una struttura pubblica) è garantita dai genitori.


