
Domenica 21 settembre, quasi al tramonto, un urlo di liberazione e di gioia echeggia tra il Vallone di Vradda e la vetta del Monte Camicia. A lanciarlo è Nicolò Ioannoni Fiore, 30 anni, un alpinista di Teramo, che si è appena lasciato alle spalle la roccia friabile e l’erba della Nord più temuta del Gran Sasso. Ha attaccato alle 7.30 del mattino, per risalire la parete, alta più di mille metri, ha impiegato nove ore e mezzo. Ora, fuori dalle grinfie dell’Orco, può celebrare la sua impresa solitaria.
Nel corso dell’estate Nicolò, con l’amico Leonardo Zuccarini, ha salito il Diedro di Mefisto, Fulmini e saette e Orient Express, tre vie-capolavoro del Paretone del Corno Grande. A fine giugno, nonostante un meteo tutt’altro che perfetto, durante un’uscita in Dolomiti ha percorso la via Comici-Dimai alla parete Nord della Cima Grande di Lavaredo. Una preparazione perfetta per il Camicia.
“Abito nelle campagne di Teramo, una collina mi impedisce di vedere il Corno Grande, ma se il tempo è bello per me il Camicia è sempre lì. Nei giorni scorsi sapevo di essere pronto per tentare la Nord. Quando sarei stato così allenato un’altra volta?” racconta Nicolò due giorni dopo l’impresa, dopo che l’adrenalina accumulata sulla Nord non gli ha quasi mai concesso di dormire.
Poche ore dopo essere tornato a casa, l’alpinista di Teramo pubblica il suo racconto, bellissimo e forte, sulla sua pagina Facebook. Lo intitola “Il coraggio è un’antica danza”, ed è un titolo perfetto. Sono righe in cui si parla di coraggio, delle scelte che servono a sopravvivere in un ambiente pericoloso come pochi.
E parla di tecnica raffinata, necessaria per salire, traversare e poi salire di nuovo su erba ripidissima, zolle che cedono sotto i piedi, zone che “sembrano un campo minato”, pendii friabili dove attaccarsi “con le dita aperte come un rastrello”. In questa stagione sul Camicia la neve e il ghiaccio non ci sono. Per un tratto, però, Nicolò sale utilizzando due piccozze da piolet-traction.
Il viaggio da casa fino all’inizio del sentiero verso la base della Nord è un tuffo nell’adrenalina. “L’orco degli Appennini si è insinuato nei miei pensieri. Sono giorni che non dormo e mangio a stento. Devo togliermelo di dosso una volta per tutte” annota nella sua mente l’alpinista mentre guida “come su un circuito di formula 1”.
Poi si attrezza con imbrago leggero, sacchetto della magnesite, daisy chain, uno skyhook, una piccola borraccia, le scarpette e le piccozze. Nicolò non ha voluto vedere la Nord di notte (“mi avrebbe fatto troppa paura”), ma quando arriva ai suoi piedi, nel Fondo della Salsa, se la trova davanti “in tutta la sua cruda realtà”.
Alle 7.30 attacca lo zoccolo erboso, allargando le dita per acciuffare più erba possibile. Poi impugna le piccozze, e va meglio. L’erba arriva al polpaccio, l’umido della notte fa scivolare i piedi. “Devo dare rispetto e stare all’occhio” annota prima di arrivare alla roccia. Beve un po’ d’acqua, calza le scarpette e riparte.
“Attacco la roccia, o forse lei attacca me” prosegue il racconto di Nicolò, “capisco subito che non ho mai affrontato qualcosa di simile. Questo posto è un agglomerato di sassi incastrati l’uno sull’altro. La malta che li unisce è composta da erba, muschio, terra. Sto cominciando ad abbassare la cresta. Anzi l’ho già abbassata. Non è permesso il minimo errore”.
Un traverso esposto di 4 o 5 metri, di cui gli avevano parlato, richiede di non tirare le prese ma di spingerle dentro la parete. Poi Nicolò esce in una comba detritica, e si dice “bravo stai andando bene”. Ma la via è ancora lunga. Ora occorre superare un “campo minato di placchette di roccia infida”, che sembrano reggere il peso solo per pochi secondi.
Prima del grande traverso erboso, lungo un centinaio di metri, che è tra i passaggi più famosi della Nord, l’italiano di Nicolò lascia il passo al dialetto teramano: “combà arpjete, datt na sviat e non ti fermare”. “Ho i piedi su zolle di terra e le mani su roccia inconsistente. Sono molto nervoso” confessa. Quando la zolla dove poggia i piedi si stacca, le mani riescono a tenere. E’ andata bene.
Dopo il traverso arrivano un canalino diagonale, più facile, e il forcellino che durante la prima invernale della parete, nel 1974, ha visto la tragica caduta di Piergiorgio De Paulis. Qui la muraglia si complica, le relazioni danno indicazioni contrastanti, ma il ragazzo di Teramo individua la via giusta. Raggiunge i “Vasconi”, e apprezza la bellezza selvaggia della Nord.
Ora la difficoltà diminuisce, la roccia diventa buona, ma l’orientamento resta un problema. Molti ripetitori, in questa zona, hanno aperto delle piccole o grandi varianti. Sopra a Nicolò salgono tre canali, che in alto lasciano il posto a crinali di roccia compatta. Supera uno spigolo affilato, traversa alla base delle placche, poi riparte.
Qui sale per 60 o 70 metri, ma è stanco e sbaglia via. “La placca è il mio stile preferito, lo stile dove danzo meglio. Eppure non ne posso più” scrive. Va a destra, aggira lo spigolo, prosegue per fessure via via più sostenute. Si accorge di essere obbligato a salire e di non poter più scendere, ma per raggiungere “il mondo dei vivi” mancano ancora 50 metri durissimi e marci. Una presa rovescia, un passo dinamico, e poi?
Quando Nicolò sta per cedere pensa a suo padre Giovanni che gli ha insegnato l’amore per la montagna. La forza per battersi torna, un lancio e una presa svasata lo portano a un terrazzino.
Quindici metri di sfasciumi precedono la cresta sommitale, gli ultimi raggi del sole e l’urlo. Il racconto pubblicato sui social termina con tre frasi. “Ringrazio Dio per essere stato al mio fianco. Ora per un po’ tolgo il piede dall’acceleratore. A forza di bussare all’ inferno finisce che qualcuno ti apre”.
Tre giorni dopo l’impresa, l’adrenalina di Nicolò c’è ancora, ma si mischia con altre sensazioni. “Sono felice di aver scattato delle foto, per dimostrare a me e agli altri cosa ho fatto” racconta. “Dedico questa salita a mio padre e a Carlo Partiti, che mi hanno atteso a Fonte Vetica senza sapere che ero andato da solo. Carlo mi ha spiegato molti segreti della Nord”.
“Vorrei che il racconto della mia salita e della mia paura sul Camicia aiutasse qualcuno a scoprire la bellezza della montagna” prosegue Nicolò Ioannoni Fiore. “Se qualcuno ora mi accusa di volermi fare pubblicità non capisce niente”.
“Non mi importa nulla se la mia è stata la quarta o la terza solitaria della parete del Camicia” risponde quando gli faccio notare che i due percorsi di Andrea Di Donato (2004 in estate, 2007 d’inverno) sono certi, mentre la prima solitaria di Marco Florio nel 1982 è stata più volte messa in dubbio.
“Ringrazio tutti gli alpinisti famosi, da Pierluigi Bini e Domenico Totani in poi, che mi hanno fatto i complimenti a voce e sui social. Non mi aspettavo che la notizia della mia solitaria avesse tanto spazio sui giornali e sui siti d’informazione abruzzesi” conclude. Ma il mito della Nord del Camicia, caro Nicolò, c’è ancora. Oggi, qui, la raccontiamo a un pubblico più vasto. Chapeau!