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Guide di arrampicata: ecco come le vorremmo

Le guide migliori non sono solo elenchi di tiri ma raccontano la montagna dall’interno e ci insegnano a leggerne i segni. Un disegno dettagliato è (quasi sempre) meglio di una fotografia

Dalle gloriose Guide CAI-Touring alle pubblicazioni più recenti, la letteratura di montagna ha moltiplicato i suoi strumenti: prima i volumi cartacei, ora sempre più spesso le app e i portali digitali. Alcune edizioni sono curate con apparati iconografici di pregio e pillole di storia alpinistica, riferimenti geografici, etnografici, geologici e ambientali. Altre restano più asciutte, quasi criptiche. E come dimenticare le celebri Kelemina sulle Dolomiti o la monumentale Vallot del Bianco, mattoni che hanno fatto scuola, tra descrizioni minuziose e qualche inevitabile enigma topografico?

Chi non ha mai sacramentato su una descrizione troppo laconica o oscura? Chiodi introvabili, doppie “su clessidra” inesistenti, tratti di parete alterati dopo crolli o frane, piccole frustrazioni che raccontano quanto, nel mare verticale, la chiarezza sia preziosa. Chi non ha mai trovato l’attacco e girovagato invano alla ricerca di un “chiodo con cordino” alla base?

A mio parere le guide migliori sono quelle che descrivono la parete da dentro, con pochi ma nitidi elementi grafici di riconoscimento: spigoli, spuntoni, alberi, rampe erbose, tetti, scaglie, strapiombi, camini, nicchie, cenge, strisce nere, vene bianche, muri, fessure, lame, grotte… Segni concreti, immediatamente riconoscibili durante la scalata. Se a questi si aggiungono le note essenziali sull’attrezzatura (dall’alto, dal basso, chiodi o spit presenti) e sulla proteggibilità dei tratti, orientarsi diventa più semplice.

Oggi, visto che siamo sempre di più, e le pareti non sono infinite, alle tradizionali informazioni d’orientamento si potrebbero aggiungere anche piccole dritte di buon senso alpino: come andare in bagno nel bosco senza trasformarlo in un campo minato, come lasciare la montagna come l’abbiamo trovata… Dettagli che sembrano banali, ma che trasformano ogni scalata in un’esperienza rispettosa, consapevole e davvero piacevole.

Pillole di storia e data di apertura aiutano a immedesimarsi nello spirito e nei materiali dei primi salitori, dunque a leggere la logica della via e a scegliere i punti più o meno deboli della parete. Al contrario, descrizioni prolisse – magari simpatiche ma dispersive – raramente sono efficaci.

Trovo l’uso delle foto utile solo per individuare l’attacco. La foto, inevitabilmente, schiaccia e nasconde i dettagli che si percepiscono solo stando dentro la via. Per questo prediligo i disegni chiari e precisi che restituiscono senza fronzoli una visione tridimensionale che la fotografia non riesce a dare.

Sulle vie sportive o in falesia tutto si semplifica grazie agli spit direzionali, nomi alla base e gradi codificati. In ambiente alpinistico, invece, contano ancora i “piccoli ma chiari” segni vissuti dall’interno della montagna. Anche le scale di difficoltà raccontano storie: la vecchia scala UIAA (“il solido quarto grado”) mi restituisce subito un’idea di verticalità e ingaggio; la scala francese, nata con l’arrampicata sportiva, su percorsi alpinistici mi lascia spesso interdetto.

Forse è per questo che le selezioni di salite percorse in prima persona dagli autori restano le opere più riuscite. Penso all’indimenticato Jürg Von Känel con i suoi disegni essenziali e precisi, o a chi riporta sulla carta con sobria dovizia di particolari e ottima mano, l’andamento della via come l’introvabile guida della Val di Mello di Cristina Zecca e Pietro Corti, copertina di granito e grafica pulita, piccoli capolavori che continuano a orientare generazioni di alpinisti.

Alla fine, al di là delle tecnologie e delle descrizioni tiro per tiro, è proprio questa restituzione essenziale, maturata dall’esperienza diretta, che ci accompagna davvero, non solo per trovare la strada, ma per imparare a leggere, comprendere e rispettare l’architettura nascosta delle pareti.

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