
Nel 1954, la guida alpina Giovanni Demetz decise di costruire, proprio sulla Forcella del Sassolungo, un punto di riferimento per gli escursionisti: il Rifugio Toni Demetz. Da allora, questa piccola struttura incastonata tra il Sassolungo e le Cinquedita è diventata un luogo simbolico, sospeso a 2.685 metri, raggiungibile solo a piedi o tramite la storica bidonvia che parte dal Passo Sella. Oggi a gestirlo è Enrico Demetz, figlio di Giovanni, che insieme alla famiglia porta avanti con passione il lavoro del padre. Il rifugio non è soltanto un punto d’appoggio per chi attraversa la Forcella: è parte integrante di un paesaggio unico, che negli ultimi anni si è trovato al centro di un dibattito acceso.
In un’estate segnata dunque dalle discussioni sulla gestione dei flussi turistici in Val Gardena, con il Seceda diventato simbolo della calca in quota e il destino della bidonvia per la Forcella del Sassolungo messo in discussione, Enrico Demetz porta il punto di vista di chi in quota ci vive. Dalle sue parole emerge una riflessione più ampia sul futuro delle Dolomiti, tra fragilità, scelte difficili e il bisogno di tutelare ciò che è ancora incontaminato.
Negli ultimi mesi si è parlato molto di hotspot “virali” e di pressione turistica eccessiva nelle Dolomiti. Qual è la situazione alla Forcella del Sassolungo?
Direi che qui la situazione è sotto controllo. Intanto perché il destino incerto della storica telecabina ha trovato delle risposte: l’impianto per ora rimane così com’è, è stato rinnovato con un collaudo e continuerà a funzionare per almeno dieci anni. A noi questo impianto va bene, perché ha una portata molto bassa rispetto a quelli moderni. Parliamo di 250 persone all’ora, contro le 1.500 o addirittura 3.000 di altri impianti in Val Gardena. È una dimensione contenuta, molto diversa. Per questo dico che l’impianto, così com’è, protegge in un certo senso la montagna: limita naturalmente il numero di persone che arrivano. In un luogo stretto come la Forcella del Sassolungo non ci sarebbe spazio per un impianto ad alta capacità. Qui va bene così. È al limite, ma gestibile.
A tal proposito, la cabinovia che porta al Toni Demetz è ormai famosa in tutto il mondo, anche sui social, per la sua particolarità: due posti stretti in piedi, nessun rallentamento in arrivo e la sensazione di essere catapultati dentro una cella-frigo volante. Questo vi porta turisti che arrivano solo per provare l’esperienza?
Sicuramente la cabinovia è suggestiva e attira tanta curiosità, anche da oltreoceano. Credo che i titolari dell’impianto abbiano capito che, proprio perché è vecchia e particolare, ha un suo fascino. È un impianto romantico, capace di diventare un’attrattiva anche per chi lo scopre sui social. Se riescono a tenerlo in piedi in maniera funzionale, ben venga. Nonostante attiri curiosi da tutto il mondo, il vero punto è che la sua portata ridotta, per fortuna, fa da protezione naturale.
Quindi per voi il numero contenuto di visitatori, paradossalmente, è quasi un vantaggio.
Esatto. Così, noi riusciamo a gestire la situazione anche quando c’è molto lavoro. E per gestire intendo non solo organizzare a livello pratico la clientela, ma anche mantenere un contatto umano. Trovare il tempo per salutare chi arriva, scambiare due parole e non essere una macchina da soldi. Questo è importante. Così la montagna rimane un luogo di incontro e non un Luna Park.
Al di fuori dell’aspetto economico, noi vogliamo avere delle soddisfazioni anche mediante gli incontri che facciamo. Credo che il fascino che si dà e si riceve sia sempre ricambiato. Io questo tipo di turismo lo vedo futuristico. Anche se così, purtroppo, non sarà.
Come mai, secondo lei, le Dolomiti si trovano a vivere questa pressione crescente?
Perché hanno una caratteristica che altri luoghi non hanno: sono facilmente raggiungibili. Patagonia, Perù o Himalaya sono luoghi altrettanto spettacolari, ma complicati da raggiungere. Qui invece hai aeroporti a Venezia, Treviso, Verona, Bergamo, Innsbruck, Bolzano, autostrade e treni. In poche ore chiunque può arrivare. Una volta i clienti erano soprattutto tedeschi, ora con i prezzi progressivamente più alti e l’Europa che si sta impoverendo arrivano sempre più americani e asiatici. E parliamo di bacini enormi: la Cina, l’India… città da venti milioni di abitanti. È chiaro che quando persone da luoghi così popolosi scelgono le Dolomiti, i numeri diventano importanti.
E allora, come si può difendere la montagna?
Bisogna proteggere certi luoghi. Nella Val Gardena ci sono ancora angoli non famosi sui social. Delle zone vergini, per così dire. Bisogna tutelarle, altrimenti non si fa che spostare il problema da una parte all’altra. Bisogna avere il coraggio di dire: “qui no”. Altrimenti, il rischio è che si vada verso la speculazione e questo non possiamo permetterlo. Ci sono zone che devono rimanere intatte, anche se attorno tutto cresce e aumenta.
Nonostante le polemiche, se si guarda alle statistiche sul turismo in Val Gardena, gli hotel quest’estate non hanno registrato il tutto esaurito. Ci sono quindi degli hotspot che, evidentemente, “prevalgono” sugli altri.
È vero. Il problema non è la valle nel suo insieme, ma i luoghi più facilmente accessibili e diventati ormai virali, visitati soprattutto dagli ingressi giornalieri e non da chi si ferma per una settimana. Ed è proprio per questo che serve responsabilità: non si devono lanciare sul mercato anche le zone ancora incontaminate, sperando di “spalmare” il problema. Altrimenti si crea un effetto domino che non porta nulla di buono.
Sarebbe favorevole a un contingentamento degli accessi in Val Gardena?
Quello arriverà da solo. È come per la Scala di Milano: non posso essere io a decidere di andare domani, sono loro a dirmi che tra tre mesi ci sono due posti liberi, per esempio. Se lo spazio diventa limitato, il contingentamento diventa naturale. Bisognerà inserire appositi sistemi online di prenotazione e richieste. I giovani non avranno problemi ad adattarsi.
Il turismo è cambiato e in tanti lo definiscono meno consapevole, con episodi di maleducazione e sporcizia. Lei come la vede?
Onestamente, qui alla Forcella questa maleducazione non la vedo. Però è una situazione personale, perché l’ambiente come detto è contenuto e riusciamo a tenerlo sotto controllo. Qui è molto diverso dal Seceda, per intenderci. In quel caso, quando esci dalla funivia hai tutta una montagna davanti dove le persone si disperdono, qui invece lo spazio è strettissimo. Certo, su dieci persone ce ne sarà sempre una maleducata. Chi viene da lontano magari non ha familiarità con la montagna, questo è vero, ma in generale l’educazione la vedo positiva. Dopotutto, a preoccupare non è il singolo, ma la massa.
Dunque, in dieci anni l’impianto che porta al vostro rifugio rimarrà com’è. E dopo?
È difficile dirlo. Ogni anno assistiamo a cambiamenti significativi e non solo a livello locale: basta guardare a quello che sta succedendo nel mondo. In questo contesto così incerto non possiamo davvero prevedere la situazione tra dieci anni. Le decisioni sugli impianti dipenderanno da come evolve il contesto generale.
Oggi però avete ancora un tipo di visitatore particolare: gli escursionisti.
Sì, e sono molto importanti per noi. Il nostro rifugio è personalizzato proprio su chi cammina. È una categoria diversa da chi viene solo per fare una foto. Con loro resta quel rapporto umano che altrove si sta perdendo.
Una riflessione finale sul futuro della Val Gardena e delle Dolomiti?
Il turismo sta diventando meno personale: prima c’erano clienti che tornavano ogni anno, con cui si instaurava un rapporto, ora tutto è più veloce e industriale. Ma sono convinto che alcuni posti possano essere salvati, mantenendo quel rapporto umano che dà senso alla montagna. Le Dolomiti sono uniche, ma non possono reggere tutto. Bisogna avere il coraggio di dire dei no, di tutelare quello che resta.