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Il paesaggio non è (solo) natura

Un villaggio di montagna è parte integrante dell’ambiente con tutte le sue costruzioni e tradizioni. Modernizzarlo troppo cancella ciò che lo rende unico. Occorre un equilibrio per preservare il dialogo tra la natura e chi ci abita.

Quando parliamo di “paesaggio”, pensiamo subito a boschi, prati e montagne. Ma il paesaggio non è semplicemente natura è molto di più, è l’incontro fra un luogo e le persone che lo abitano, il risultato dell’armonia – o della disarmonia – di questa relazione.

Un villaggio alpino vissuto e curato racconta una storia fatta di mani, di stagioni, di lavoro e di festa. Un villaggio trasformato in vetrina per turisti racconta invece una storia diversa: quella di un luogo svuotato, dove si è perso il filo con le radici.

Troppo spesso le montagne diventano scenari costruiti per l’occhio del visitatore con legno grezzo appiccicato ovunque per dare “calore”, un’insegna finto-rustica, qualche lampione in stile tirolese e via, tutto pronto per il prossimo inverno. In questi luoghi l’autentico viene sostituito dal simulacro, il reale diventa spettacolo; sono posti dove il turista trova esattamente ciò che si aspetta, e nulla di più.

Ma il paesaggio non è una cartolina da allestire è un organismo vivo che riflette la cultura di chi lo abita. Quando questa cultura perde il linguaggio del luogo – quando non sa più riconoscere la storia, le tracce, la memoria che rendono unico un paese di montagna – allora il paesaggio smette di parlare e chi ci vive, paradossalmente, non se ne accorge più.

E il paradosso è che non sono solo i turisti a chiedere tutto questo.
Spesso sono gli stessi abitanti, sedotti da mode e modelli “di successo” importati dalle città, a trasformare i propri paesi in prodotti senz’anima.
Da costruttori di paesaggio diventano distruttori inconsapevoli, credono di modernizzare, ma in realtà cancellano ciò che li rende unici.

Non è questione di “conservare tutto com’era”. Il paesaggio cambia da sempre e ogni generazione ha lasciato la sua impronta, costruendo case, terrazzando i versanti, aprendo sentieri. Il problema nasce quando queste trasformazioni non nascono più da una comunità che abita e conosce, ma da un mercato che consuma e impone modelli sempre più omologanti. Il risultato? Luoghi senz’anima, simili tra loro, pensati solo per essere attraversati in fretta o per vendere un pacchetto-vacanza.

Eppure, quando camminiamo in un alpeggio ben tenuto o in un paese dove le case raccontano la loro età senza travestimenti, sentiamo che lì c’è qualcosa di vero. Lì il paesaggio non è una scenografia, è un dialogo vivo fra la natura e chi la abita.

La bellezza non è un lusso ma il risultato di una cura quotidiana, di una misura, di un rispetto per la memoria. Non tutto va salvato acriticamente, ma ogni cambiamento dovrebbe chiederci: “questo renderà il luogo più armonioso, più vivo, più nostro?”.

Forse, quello che cerchiamo quando viaggiamo – nelle città d’arte come sulle Alpi – non è solo bellezza. È un senso di appartenenza, un legame autentico. Ma se non impariamo a coltivarlo nei luoghi dove viviamo ogni giorno, non lo troveremo mai davvero, neanche nelle valli più remote.

In fondo il paesaggio siamo noi, è la nostra impronta sulla Terra. Possiamo farne un capolavoro, oppure ridurlo a zozzeria. Sta a noi decidere.

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