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Ciabatte su ferrate e ghiacciai, sanzioni e moralismi: davvero è questo il problema?

L’attrezzatura inadeguata è il sintomo, non la causa. Occorre ampliare la cultura dell’andare per monti

Ancora una volta, d’estate, le montagne si riempiono. Ormai sempre di più come in spiaggia, come i centri commerciali durante il periodo dei saldi.

La montagna pare essere diventata il rifugio dei tempi nuovi, del clima che si surriscalda. È la fuga dalle città arroventate con il miraggio di aria buona e dei paesaggi “instagrammabili”, un toccasana per corpi che hanno bisogno di refrigerio e spirito di che cerca libertà. Ma la libertà, senza consapevolezza, diventa un’illusione pericolosa.

E così, anche l’estate 2025 è segnata da un alto numero di incidenti, anche mortali. Il Presidente nazionale del Soccorso alpino lo dice chiaro, su una testata nazionale: basta improvvisati, basta scarpe da ginnastica, basta leggerezza.

Una reprimenda dura, quasi un urlo ma, come sempre, le cose sono un po’ più complesse, perché ogni volta si torna lì, al dito puntato sull’equipaggiamento, al mantra dell’inadeguatezza tecnica.

Scarpe sbagliate, zaini leggeri, assenza di ramponi, nessuna idea del meteo. Sì, certo, tutto vero, ma ormai è un disco rotto. Non funziona.

Cosa c’è dietro quella scarpa da ginnastica sul nevaio? Quella partenza verso l’aria sottile senza abbigliamento adeguato? Cosa c’è davvero, sotto quella caduta, quella cordata in panne, quel numero al 112? Perché si continua a trattare il sintomo, e mai la causa?

Il tema, ancora una volta, è culturale. E parte da lontano; viviamo nel paradosso del trail-runner che vola sulla cresta con scarpe leggere e braghe corte – icona estetica, icona sportiva. C’è Killian Jornet che corre con consapevolezza sul Bianco o sul Cervino e ci sembra tutto normale. C’è l’immaginario social, l’estetica da spot, la velocità, la performance; poi additiamo il ragazzino che scivola in scarpe da ginnastica. Eppure le nostre nonne portavano gerle pesanti solo con gli zoccoli ai piedi, per prati scoscesi o erti gradini di roccia tra i terrazzi dei muri a secco. Ma loro conoscevano il terreno meglio di ogni manuale, perché la protezione, quella vera, non è materiale, è la relazione. È la coscienza di sé nello spazio.

Poi, puntuali, arrivano i moralizzatori: “Fateli pagare!”, “Chi chiama il soccorso senza motivo, venga multato!”. Funziona davvero? O ci stiamo solo inventando nuove frontiere del giudizio? Perché allora, per coerenza, dovremmo far pagare anche chi fuma, chi mangia troppo, chi ignora le prescrizioni mediche. Multiamo chi si ammala? Chi si perde nella vita? Scivolosa, questa china, pericolosa, più della scarpa liscia su un nevaio.

Forse bisogna agire a monte, non a valle. Educare, formare, accompagnare, costruire coscienza. E allora mi chiedo perché chi ha voce autorevole non dice nulla sul proliferare di impianti che vomitano escursionisti in quota? Perché non ci si oppone al sentiero trasformato in pista per cicli a batteria? Alla vetta trasformata in parco giochi, alla folla senza direzione scaricata da una seggiovia?

La verità scomoda è che abbiamo avvicinato troppo la montagna. L’abbiamo resa comoda, rapida, consumabile. E ora ci stupiamo se chi la frequenta è inconsapevole? Ma cosa ci aspettavamo?

Serve un’altra voce. Una voce che non si limiti alla ramanzina, ma apra spazi di senso, dove serve tempo, pazienza, cura. Serve una nuova pedagogia dell’andare, perché la montagna, quella vera, non è lì per salvarci dal caldo. È lì per renderci un po’ più lucidi, un po’ più umani, ma solo se sappiamo ascoltarla.

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2 Commenti

  1. buongiorno, sono d’ accordo con la maggior parte dell’articolo, il problema come sempre è culturale, richiede tempo e pazienza. naturalmente entrambe in un momento in cui arrivare in cima è facile e veloce con gli impianti mancano alla maggior parte di noi. mi chiedo però se educare basti. probabilmente no, nonostante educazione, attrezzatura e avanzamento tecnologico, manutenzione dei sentieri e osservazioni idrogeologiche ci sarà sempre una parte di rischio, la più consistente, che volenti o nolenti dipenderà dal singolo, dalla sua volontà e dalle sue capacità fisiche.

  2. Il problema è che tali persone non leggono i siti come questo, non guardano i telegiornali le rare volte in cui si parla di questi episodi e, men che meno, hanno una conoscenza della cultura di montagna o si informano su come frequentarla, perciò, non sono assolutamente preparati su come affrontare la stessa. Bisognerebbe, nei casi in cui sia possibile, tipo le funivie che portano in quota (perchè di sicuro uno in ciabatte non si fa mille metri di dislivello per raggiungere il ghiacciaio), che gli addetti stessi ne impediscano l’accesso. Ma poi sai quanti incassi in meno farebbero…..

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