
Estate del 1910, una mattina di sole. Tre uomini e un grosso cane nero risalgono il vallone che separa il Catinaccio dalle Torri del Vajolet. Apre la fila Tita Piaz https://www.montagna.tv/241686/tita-piaz/ , guida alpina e padrone di casa, lo segue il cane Satana. I clienti, entrambi torinesi, all’inizio sono decisamente perplessi.
Tanta è la fama di Piaz tra i villeggianti di Fassa, che Ugo De Amicis e Guido Rey hanno dovuto aspettare per due giorni che la celebre guida trovasse qualche ora per loro. Sul sentiero Tita sale “a capo scoperto, senza il sacco, in giubbetto di tela e scarpette, con un bastoncino da passeggio tra le mani”, mentre Satana ha “un lungo rotolo di corde avvolto al collo”. De Amicis porta le provviste.
Per chi è avvezzo alle piccozze, agli zaini, alle partenze antelucane del Monte Bianco, questa partenza sembra una profanazione. “Non mi avvenne mai di partire per un’impresa alpina con così semplici preparativi” annota scettico Rey. Ma a qualcuno l’arrivo di due piemontesi fa piacere. “Ne vengono così pochi di italiani quassù!” commentano due trentini sul sentiero.
Poi si arriva alla roccia, e i due amici arrivati dal Piemonte scoprono un mondo incantato. Anche se la quota è modesta, anche se non ci sono “alti graniti e ghiacciai”, le Torri del Vajolet sono avversarie tenaci. A vederle da sotto, queste guglie “affacciate su abissi impensati” sembrano “merlature dirute, minareti screpolati, tronchi di obelischi infranti”.
A toccarle, sembrano formate da “una lava bianca, abbagliante sotto il sole, una cosa tonda, bucherellata e molle e pur tagliente e saldissima, entro cui penetrano le dita e l’agguantano bene”. Dal canto suo “il piede si modella alle forme della rupe, sente la bontà del macigno, si libra sicuro poggiato a orli impercettibili su balze verticali”.
Per Guido Rey, che ha cinquant’anni, è la nascita di una nuova passione. L’uomo che introduce i torinesi alle “inverosimili ginnastiche” su quelle rocce si chiama Tita Piaz. Una grandissima guida, certo. Ma anche uno dei personaggi più singolari nella storia dei “Monti Pallidi”.
Nato a Pera nel 1879, morto nel 1948 per una caduta in bicicletta nella sua Val di Fassa, Giovanni Battista Piaz è un alpinista istintivo, un uomo nato povero e che conosce il valore del denaro, un ladino delle Dolomiti di fede socialista e che ama l’Italia. E che, per questo, viene spedito più volte in galera dalle autorità austro-ungariche, che nel 1914 tentano di liberarsi di lui spedendolo a combattere sul fronte russo.
Terminata la guerra, nel 1920, quando re Vittorio Emanuele III visita per la prima volta Bolzano, Piaz sale sulle Torri del Vajolet per accendere un falò tricolore di benvenuto. Uno spettacolo, temiamo, del quale il re che stava per mandare al potere il fascismo non si accorge. Nei decenni successivi Tita protegge oppositori del regime, ebrei e partigiani. Nel 1944, per queste sue attività, passa nove mesi nella prigione delle SS di Bolzano.
E’ la verve polemica di Piaz, insieme alla sua abilità in montagna, a meritargli il soprannome di “Diavolo delle Dolomiti”. In parete, oltre che per le capacità arrampicatorie, la guida fassana spicca per creatività e inventiva. Dante Colli e Gino Battisti nella guida Catinaccio del 1984, lo descrivono come protagonista di “un alpinismo di tipo acrobatico che ama le pagine dei giornali”.
L’elenco delle 56 tra “vie Piaz” e varianti aperte tra il 1899 e il 1935 sulle Dolomiti include itinerari sulla Cima Tosa, sul Sass Pordoi, sui Cadini di Misurina e sulla Punta di Frida, e comprende acrobazie come la calata per gli strapiombi del Campanile di Val Montanaia (37 metri, un record per l’epoca!) e l’aerea traversata a corda verso la Guglia De Amicis. “Se un abitante del Madagascar avesse assistito a questa rappresentazione, avrebbe durato fatica a convincersi che in Europa si era raggiunto un alto grado di cultura” scrive Piaz a proposito di quest’ultima.
Passano alla storia anche una traversata solitaria (1899) della catena del Catinaccio e del Vajolet – “sette vette in otto ore” titolano le cronache locali – che è il primo enchaînement dei Monti Pallidi. E lo spigolo della Torre Delago, salito nel 1911 con Irma Glaser e Francesco Jori, che una guida definirà “intensa come una fucilata”.
Torre Emma, una faccenda personale
L’elenco delle prime di Piaz in Val di Fassa include itinerari sulla Torre Winkler, sul Catinaccio e sullo Schenòn del Latemar. La salita più importante per capire il suo rapporto con la valle (e con la conca delle Porte Neigre, dove gestisce il rifugio Vajolet, ne viene cacciato e poi riesce dopo molti anni a inaugurare il suo rifugio dedicato a Paul Preuss) è quella della Punta Emma, il torrione strapiombante che domina il rifugio. Una vetta che Piaz non sale soltanto, ma inventa.
“Per seguire la mia passione per la montagna bisognava guadagnar quattrini” scrive Piaz in Mezzo secolo d’alpinismo, pubblicato poco prima della sua morte. Agli inizi del suo mestiere di guida inizia a cercare una torre inviolata alla quale dare il suo nome, e dove poi condurre a caro prezzo i turisti.
Nel 1899, a vent’anni, scopre il “disgraziato cocuzzolo che la mole del Rosengarten sdegnosamente ha separato da sé mediante una forcella di qualche metro”, e ne tocca la vetta nello stesso giorno insieme a Emma Dellagiacoma, cameriera del rifugio Vajolet. I due salgono per il camino di terzo grado oggi percorso in discesa, la cima viene dedicata alla spaventata ragazza. “E la lavapiatti passò alla storia!” tuona Mezzo secolo d’alpinismo.
Un anno più tardi, per ribadire che quella montagna è sua, Tita Piaz tenta la strapiombante fessura che incide le rocce della Punta Emma di fronte alla Gola delle Torri e al rifugio. Il primo giorno attacca ma è costretto a rinunciare dallo stato pietoso delle pedule. “Quando credetti di aver fatto abbastanza per dimostrare a tutti che non ero un vile, discesi” racconta.
Theodor Christomannos, albergatore a Carezza e ideatore della strada che unisce Bolzano a Cortina, assiste al tentativo dal rifugio e gli regala 17 fiorini per sostituire le scarpe. L’indomani Piaz torna all’attacco con un paio di pedule nuove. Ormai la Punta Emma è famosa, e un folto pubblico pronto “a godersi lo spettacolo di un trionfo o di una possibile tragedia” assiste alla scalata dal rifugio. L’atmosfera da circo e la brevità della parete nulla tolgono alla difficoltà della parete.
Dove la fessura diventa strettissima e liscia, Piaz rischia il tutto per tutto. “Compresi che la bilancia non stava in mio favore. La spaccatura, nella quale non potevo introdurre che la mano sinistra, era lunga parecchi metri e sembrava strapiombante”.
“Per l’unica volta nella mia vita alpina giocai il va banque con la vita. La riuscita o la morte!” ricorderà. “Questa onda di insensata ammirazione, questo incensamento sciocco mi gonfiarono di malsano orgoglio” ammetterà nella sua autobiografia.
Poi parte, supera di slancio il tratto più duro, riesce a respirare quando la fessura si allarga e gli permette di riposare al suo interno. “Non era la fama, non era il pane, era la vita!” conclude. Qualche anno più tardi i grandi Paul Preuss e Hans Dülfer ripeteranno la fessura e tesseranno le lodi di Piaz, poi generazioni di alpinisti faranno la fila per ripeterla, piantando molti chiodi e imparandone a memoria gli appigli. La prima solitaria, in salita e in discesa, è di un altro grande, Heinz Mariacher.
L’unico dettaglio che non è arrivato fino a noi – colpa del protagonista, di Christomannos, dei tanti spettatori senza nome – è la data esatta della prima salita. Ma la fessura della Punta Emma resta un monumento a Tita Piaz anche senza saperla.