
Settant’anni e qualche giorno fa, il 25 maggio del 1955, due alpinisti britannici compiono una grande impresa. Due anni prima George Band ha partecipato alla spedizione che ha salito per la prima volta l’Everest. Joe Brown, star dell’arrampicata su roccia, non ha esperienza himalayana ma per lui questo non è un problema.
All’una del pomeriggio ora del Nepal, dopo un’arrampicata di alta difficoltà su roccia e misto, i due inglesi arrivano a pochi metri dalla cima del Kangchenjunga, la terza montagna per quota della Terra. Per vincere il torrione finale, Joe Brown supera da primo una fessura tra il quarto e il quinto grado, che i ripetitori eviteranno per un pendio facile.
Oltre il torrione e la fessura, un comodo pendio di neve raggiunge gli 8586 metri della vetta. George e Joe, però, si fermano senza superarlo, per lasciar vergine la cima che secondo i buddhisti del Sikkim è sacra. Fanno quello che il capospedizione Charles Evans, anche lui protagonista due anni prima sull’Everest, ha promesso al Chogyal, il principe del piccolo Stato himalayano. L’indomani Norman Hardie e Tony Streather, che compiono la seconda salita, rispettano a loro volta la promessa.
Dal 1955 a oggi, sul e intorno al Kangchenjunga, succedono molte cose. Nel 1962 l’India annette il Sikkim, che cessa di esistere come Stato indipendente.
Dopo l’ascensione di Band, Brown e compagni, che completa quella tentata cinquant’anni prima da Aleister Crowley, Heinrich Pfannl e compagni, la loro via viene ripetuta più volte, e altri itinerari vengono tracciati sul versante nepalese del Kangch. Nel 1977, una spedizione militare indiana completa l’itinerario tentato per due volte, negli anni Trenta, dalle spedizioni tedesche dirette da Paul Bauer.
Non sappiamo quando, la promessa fatta alla gente del Sikkim viene tradita. Oggi – ma ormai da decenni – gli alpinisti, delle spedizioni commerciali e non, raggiungono il punto più alto del Kangchenjunga, piantando piccozze e ramponi nella neve che sarebbe dovuta restare inviolata.
Quasi tutte le spedizioni, va detto, salgono dal versante nepalese. Quest’anno, tra Sherpa e clienti, la cima è stata raggiunta da una trentina di persone. Nel Sikkim indiano, dal 1977 a oggi vengono rilasciati solo altri due permessi, e sempre a spedizioni ufficiali. Il Kangch è l’unico “ottomila” dell’India, e più che motivazioni religiose sembra di vedere l’intenzione di fare del versante orientale di questa montagna una “riserva di caccia” degli alpinisti di New Delhi.
Qualche giorno fa, una notizia scuote il mondo dell’alpinismo himalayano. Prem Singh Tamang, Chief Minister del Sikkim, chiede ai governi dell’India e del Nepal non solo di ripristinare il rispetto per la cima, ma di chiudere totalmente il Kangchenjunga. “Salire questa montagna sacra viola le disposizioni di legge, ma anche le profonde credenze religiose della gente del Sikkim”, scrive Tamang, che cita una legge del 1991 sui luoghi di culto più importanti.
Se si bada alla storia recente del Kangch, la richiesta del politico di Gangtok sorprende perché quest’anno, dal versante nepalese, sono arrivati in cima numerosi alpinisti indiani, tra i quali cinque componenti di una spedizione del National Institute of Mountaineering and Adventure Sports dell’Arunachal Pradesh. C’è anche una spedizione congiunta degli eserciti dell’India e del Nepal.
Se si bada solo all’alpinismo, è evidente che il Ministero del Turismo di Kathmandu non vuole controllare il numero degli alpinisti e dei permessi, sul Kangchenjunga come sull’Everest e altrove. Le montagne di dollari coinvolte, e il potere della Seven Summit Treks e delle altre agenzie nepalesi fanno sembrare improbabile un cambiamento.
Qualche mese fa, il governo di Kathmandu ha annunciato di aver aggiunto all’elenco degli “ottomila” quattro cime secondarie del Kangch, e cioè lo Yalung Kang (8505 metri), lo Yalung Kang West (8077 metri) e le vette Centrale (8473 metri) e Sud del Kanchenjunga (8476 metri).
L’unica grande montagna vietata per motivi religiosi in Nepal è il Machhapuchhare (6993 metri), un elegante satellite dell’Annapurna, sacro per i Gurung delle valli vicine. L’unica spedizione mai ammessa, diretta nel 1957 da Wilfrid Noyce (un altro reduce dell’Everest), si è fermata a 50 metri dalla vetta. Al contrario del Kangchenjunga di Band e Brown, però, il Machapuchhare figura come “inviolato” sugli elenchi.
Insomma, se a comandare fossero solo gli alpinisti e il business, sembra molto difficile che il Kangchenjunga possa essere chiuso alle spedizioni in futuro. Se entrerà in gioco la politica, però, le cose potrebbero prendere una piega diversa.
Il Nepal, anche se indipendente da secoli, è un Paese senza sbocchi al mare, e che confina solo con la Cina e con l’India. Verso nord sul confine c’è l’Himalaya, e quindi la quasi totalità delle merci raggiunge Kathmandu e il resto del Paese dal confine indiano.
Qualche anno fa, quando il governo nepalese ha cercato di aumentare l’interscambio commerciale con Pechino, e ha accettato il progetto cinese di prolungare verso Kathmandu la ferrovia che raggiunge Lhasa e Shigatse, l’India ha bloccato per qualche mese i confini, fermando prima di tutto la benzina e il gasolio. E il Nepal ha dovuto fare dietrofront.
Il primo ministro indiano Narendra Modi è certamente sensibile alle questioni religiose, anche se soprattutto degli indù (la grande maggioranza dei cittadini) e non dei buddhisti. Se il Chief Minister Prem Singh Tamang riuscisse a convincere il governo di New Delhi, e questo premesse con forza su Kathmandu, il divieto di salire il Kangchenjunga potrebbe diventare possibile.