Senza impianti. Tutto il piacere di andare a piedi verso la parete
Seggiovie e cabinovie non hanno ancora iniziato la loro routine estiva, per andare in quota si devono percorrere sentieri ormai poco frequentati. È il momento giusto per riscoprire angoli della montagna che altrimenti passano inosservati


Nelle Alpi, a inizio stagione, ci sono giornate che invitano a cambiare prospettiva. Quando gli impianti sono ancora fermi, ci si muove a piedi dal fondovalle, attraversando boschi, radure e silenzi.
Questa è la traccia di una salita classica vissuta interamente, dal primo metro in ombra fino al sole della parete.
Un cammino che restituisce attenzione ai dettagli, alla presenza, a tutto ciò che normalmente si lascia dietro quando si punta dritti all’azione.
Nei giorni in cui la cabinovia è ancora ferma scegliamo di partire dal fondovalle. L’aria è tersa, il verde dei boschi esplode sotto gli ultimi respiri di primavera, il passo si distende, il respiro si allarga.
Salire così, senza impianti, senza scorciatoie, è già parte dell’esperienza, osserviamo le pieghe del sentiero, gli aghi nuovi dei larici, il muschio che colonizza le radici contorte. Mille dettagli che normalmente scivolano via, nascosti dietro i vetri di una scatola di metallo in corsa. Ci disintossichiamo da un vecchio difetto di ogni alpinista: il disinteresse per tutto ciò che ci separa dall’azione, dalla parete.
I primi raggi di sole entrano da una grande frattura verticale che taglia il versante.
Al bordo del dirupo, un grande gembro affonda le radici nel granito, silenzioso, tenace. Più in alto, la diga dell’Albigna si erge imponente. Siamo nel Canton Grigioni, di fronte a una delle più particolari dighe delle Alpi, posta sul ciglio di una parete quasi verticale, sospesa mille metri sopra l’alta Val Bregaglia.
Tutto attorno, le guglie granitiche delle Alpi Retiche occidentali incorniciano l’orizzonte.
Proprio sopra il coronamento, emergono i profili arditi dello Spazzacaldera e della Fiamma, nomi pittoreschi che sembrano usciti da una leggenda.
La parete ci accoglie inondata di luce, i rododendri mostrano i primi boccioli, il rosa non ancora esploso, ma pronto. Ci fermiamo a osservare le cime ancora imbiancate: qui, oggi, ci si può anche solo sedere e guardare.
Dalla parte opposta della valle, il Grande Spirito – una curiosa struttura incastonata nella parete di granito – osserva silenzioso la nostra progressione. È una presenza immobile, quasi scultura naturale, pare custodire memorie che precedono ogni nostra fatica.
Poi attacchiamo Steinfresser, la “mangiapietre”, salita nel 1978, prima via di settimo grado dell’Albigna, una linea che oggi è una gran classica, spesso scalata in velocità da chi esce dalla funivia con le scarpette già ai piedi, pronti per affrontarne subito una successiva.
Ma oggi no, ogni metro di granito ha il suo tempo, il suo silenzio. Non c’è nessuno. Piccole fioriture brillanti nascono dalle fessure, un gheppio staziona a lungo sopra di noi, poi si lancia in picchiata sfiorando le rocce.
Siamo soli.
E va bene così.