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Gran Sasso, la storia del rifugio Franchetti e di Luca Mazzoleni che lo gestisce dal 1988

“Chi apre serra”, il nuovo libro del gestore Luca Mazzoleni, racconta la storia del rifugio Franchetti, 2433 metri, il più alto del Gran Sasso. Un punto d’appoggio prezioso, in estate, ai piedi del Corno Grande e del Corno Piccolo

Il rifugio più amato del Gran Sasso sorge dal lontano 1960 anni nel vallone più dolomitico dell’Abruzzo, tra la solare parete Est del Corno Piccolo e le ombrose rocce delle Tre Vette del Corno Grande.

In estate, nelle giornate di bel tempo, decine di alpinisti e centinaia di escursionisti affrontano lo spettacolare sentiero che sale dall’Arapietra al Passo delle Scalette, entra con un tratto aereo nel Vallone delle Cornacchie, e poi lo risale a tornanti fino al dosso a 2433 metri di quota che accoglie il rifugio Franchetti.

L’edificio, il terzo della Sezione di Roma del CAI sul Gran Sasso dopo il Garibaldi (1886) e il Duca degli Abruzzi (1908), è stato reso possibile da un lascito di Carlo Franchetti, un ricco imprenditore nato a Vienna e vissuto tra Roma, Cortina e Venezia. Proprietario della Ca’ d’Oro sul Canal Grande, costruttore della prima funivia del Faloria, era un appassionato di montagna e di grotte.

Nel 1920, con Enrico Jannetta, Franchetti esplorò i Meri, dei pozzi verticali profondi un centinaio di metri che si aprono sul Monte Soratte, poco a nord della Capitale. Negli anni successivi partecipò a importanti arrampicate sulle Cinque Torri e sulla Civetta. Il fascismo, che lo rese barone, lo privò dei diritti civili nel 1939 perché ebreo. Morì nel 1953 in un incidente d’auto, il rifugio che lo ricorda fu inaugurato sette anni dopo.

La costruzione del Franchetti, sul versante teramano del gruppo è legata allo sviluppo dell’alpinismo sulle pareti del Corno Piccolo, in territorio di Pietracamela. Il suo primo gestore fu Gigi Mario, guida alpina e formidabile arrampicatore di Roma, che aprì vie che sono rimaste mitiche come la Rosy al Monolito, lo Spigolo a destra della Crepa e il Quarto Pilasgtro del Paretone.

Quando Gigi mollò tutto, e partì per il Giappone (ne sarebbe tornato monaco Zen, qualche anno dopo), a occuparsi del Franchetti fu a lungo anni Pasquale Iannetti, Pasqualino per i frequentatori della zona, guida alpina di Teramo ancora molto attiva in montagna e sui social.

Nel 1988, infine, la Sezione di Roma del CAI affida il Franchetti a Luca Mazzoleni, che nei sei anni precedenti ha gestito e rilanciato il Duca degli Abruzzi. Non trova una situazione facile. In sala da pranzo ci sono tre tavoli e qualche panca, nelle camerate al primo piano reti e materassi sono sfondati.

Luca non si perde d’animo, recupera qualche vecchia coperta ai Prati di Tivo, ne acquista altre, compra anche pentolame, mobilio, una cucina a gas. Poi ci sono i viveri, e tutto viene portato su a spalle, per i 400 metri di dislivello del sentiero che sale dalla Madonnina.

Il sistema migliore per fare il carico senza soffrire troppo è non pensare, o meglio perdersi nei propri pensieri, quali essi siano, purché non si tratti di quanto pesi la soma, quanta fatica si faccia, quanto manchi alla meta. Non compiangersi, non cedere al lamento per la fatica che opprime. Semplicemente spingere sulle gambe, irrigidire la schiena, bilanciarsi sui piedi e andare avanti” spiega Mazzoleni in Chi apre serra, il suo libro autobiografico appena pubblicato dall’editore teramano Ricerche&Redazioni.

Negli anni molte cose cambiano. Il Franchetti, che resta un piccolo rifugio con 24 posti-letto, diventa confortevole e viene arricchito da una veranda, da un locale invernale e perfino da un bagno interno (quello originale era fuori, sull’orlo di una parete rocciosa).

Dopo un paio d’anni di fatica bestiale, il nuovo gestore riesce a permettersi un elicottero per portare cibo, gas e altro in quota in primavera, e il lavoro per portare a spalla i carichi si riduce al necessario: carne, pane, frutta e verdura e poco altro.

Luca Mazzoleni, negli anni, diventa un personaggio amatissimo dai frequentatori del Gran Sasso. Né il Parco né il Comune di Pietracamela hanno un ufficio di informazioni turistiche, e centinaia di persone chiedono notizie sull’innevamento e sul meteo al Franchetti. D’inverno e a primavera, quando il rifugio è chiuso, Luca si dedica allo scialpinismo, e cura delle apprezzate guide di itinerari con le pelli di foca.

La nascita più di trent’anni fa del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga cambia la situazione intorno al Franchetti. Il massiccio diventa più famoso e visitato, il camoscio appenninico, reintrodotto nel 1992, diventa un frequentatore abituale del Vallone e di lascia spesso fotografare accanto al sentiero.

E’ il Parco a finanziare, nel 2016, la ristrutturazione delle ferrate Ventricini, Danesi, Ricci e Brizio (poi ribattezzata dei Ginepri), che diventano estremamente popolari. Nel 2023, un breve tratto di ferrata viene installato anche sulla via normale del Corno Grande, sulle rocce del Passo del Cannone, dove prima si passava senza aiuti.

Il sentiero che sale dalla Madonnina al rifugio, in compenso, non viene mai sistemato a fondo, e oggi comprende dei tratti scivolosi ed esposti, che possono diventare pericolosi con la pioggia. L’afflusso di escursionisti in giornata risente anche delle infinite discussioni tra la Provincia di Teramo, il Comune e il gestore della cabinovia, che porta spesso a periodi di chiusura anche in piena stagione.

Ma il Franchetti resiste. In condizioni ideali, dalla fine di giugno a settembre, per raggiungerlo si sale in cabinovia dai Prati di Tivo alla Madonnina, e si prosegue a piedi per poco più di un’ora. Quando l’impianto è chiuso, dal piazzale dei Prati, si deve salire in auto fino al Piano del Laghetto, e partire da lì, camminando un’ora in più ma godendo di un meraviglioso colpo d’occhio sui due Corni. La salita per il sentiero diretto, consigliata da autori di guide poco attenti, è molto più faticosa.

Da qualche anno, grazie alla guida alpina Riccardo Quaranta, si può arrivare al rifugio seguendo le vie di arrampicata dello Sperone Franchetti, lunghe fino a tre tiri di corda e con difficoltà classiche, fino al 5b/5c. La bellezza e la comodità di accesso della parete (oltre alle fettuccine, alle crostate e alla birra che attendono all’uscita) le hanno rese rapidamente classiche.

Quando la montagna è innevata tutto cambia. Fino a giugno inoltrato sul sentiero di accesso c’è neve, e invece di seguire l’ultima parte del sentiero si sale sul fondo innevato del Vallone. D’inverno il tratto-chiave diventa il Passo delle Scalette, un’aerea ed esposta traversata attrezzata con qualche ancoraggio, e a volte con una corda fissa. Va da sé che l’itinerario è riservato ad alpinisti con piccozza e ramponi e a scialpinisti.

Poi c’è l’acqua, e anche quella è una storia istruttiva. A rendere possibile l’esistenza del Franchetti è una piccola sorgente posta sulla verticale del rifugio, alimentata dallo scioglimento del Ghiacciaio del Calderone. Spesso viene ostruita da terra e ghiaia, e per sistemarla Luca e i suoi colleghi devono affrontare un micidiale ghiaione e un breve tratto di arrampicata.

Alla fine di settembre, quando il gelo ferma l’acqua, vivere al Franchetti non è più possibile. Ma c’è anche una preoccupazione per il futuro. Il Calderone si sta riducendo. Se l’acqua dovesse finire del tutto il rifugio non potrebbe più esistere racconta Mazzoleni al regista umbro Andrea Frenguelli, nel documentario Chi apre serra che ha lo stesso titolo del libro.

Adesso però il Franchetti c’è ancora. E’ una meta, è un presidio del territorio, è un punto di partenza per sentieri impegnativi o arrampicate. E’ un sogno per chi lo avvista, anche d’inverno, dai dossi tra la Cima Alta e l’Arapietra.

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