Dai paesi di montagna alla conquista del mondo. Cinque storie di emigrazione, genialità e successo
Dalla Carnia alla Valsesia, dalla Val di Zoldo alla Val Bregaglia fino ai Grigioni. Spinti dalla necessità tanti uomini della montagna portarono in pianura le loro abilità. E fecero fortuna
Sono tra i 60 e gli 80 milioni gli oriundi italiani che vivono nel mondo, un numero più alto della popolazione attuale del Bel Paese. Alcuni sono partiti in anni recenti, molti sono discendenti di nonni e bisnonni che hanno lasciato il Paese dopo la nascita del Regno d’Italia. Parte di questi migranti proviene da terre di montagna. Spinti dalla fame e dalla povertà successiva alle guerre, ma anche dal sogno di una vita migliore. C’è un filo conduttore che guida i migranti: ci si spostava seguendo le orme di altri compaesani, per non sentirsi soli e sperduti in luoghi di cui non si conosceva la lingua, né la gente. In alcuni casi, l’esodo era solo temporaneo: si lavorava all’estero per un periodo o una stagione, con l’obiettivo di rientrare a casa a lavoro finito con le tasche piene. Nel frattempo, la gestione della famiglia restava in mano alle donne, che provvedevano a bimbi e anziani, ai campi e agli eventuali animali. Quando non era il lavoro femminile a essere richiesto, spingendo quindi le giovani a partire. Che cosa facevano gli italiani di montagna all’estero? Vi raccontiamo in breve cinque storie, che testimoniano la loro creatività e l’ingegno.
I gelatieri della Val di Zoldo
La montagna bellunese già dal Settecento è terra di migranti stagionali, verso la pianura veneta ma anche in direzione nord, oltre le Alpi. Le donne partono per fare le cameriere e le domestiche, gli uomini sono carbonai, spazzacamini, venditori di oggettistica varia, boscaioli, minatori ma anche arrotini, stagnini, calderai. Gente a caccia di lavoro e soldi, che l’agricoltura di montagna non poteva garantire a tutti. La Val di Zoldo, compresa fra le valli del Boite, di Cordevole e Fiorentina, ha una storia affascinante da raccontare: quella dei gelatieri, partiti nell’Ottocento da qui alla conquista del mondo. Non è noto quando esattamente il gelato abbia raggiunto le valli bellunesi. Sappiamo però che gli zoldani erano abili nella lavorazione dei metalli e nella produzione di chiodi. Il loro cliente principale era Venezia, che dalle montagne si riforniva anche del legname per le sue navi. Ma i mutamenti politici nell’Ottocento lasciano i zoldani senza lavoro. L’ancora di salvezza diventa la professione di gelatiere. Il primo artigiano, proveniente da Zoppè, aveva imparato l’arte gelatiera a Venezia, portandola nella valle. Probabilmente da lui impararono il mestiere diverse famiglie di futuri gelatieri, dapprima ambulanti durante la stagione estiva, poi emigrati stabilmente in Germania, Austria, Olanda. E forse qualche gelataio zoldano c’è ancora anche all’altro capo del mondo, a Buenos Aires o in Giappone.
Il marmo finto della Valsesia conquista l’Europa
Siamo nel 1832. Da Rima in Valsesia, un ragazzino walser di 11 anni parte per cercare fortuna come garzone stuccatore e decoratore, al seguito di altri compaesani, i Viotti. Si chiama Antonio De Toma (1821-1895) e diventerà un virtuoso nell’arte della scagliola, la tecnica basata sull’uso di gesso per produrre il marmo artificiale. Parlando la lingua germanica dei Walser, Antonio non fa fatica a imparare il tedesco a Monaco di Baviera e in breve tempo si impone sul mercato come il migliore artigiano nel suo settore. Gli emigrati spesso si sostenevano a vicenda: Antonio e gli altri rimesi non fanno eccezione. E quando De Toma incomincia a ricevere commesse importanti, coinvolge gli altri compaesani, fra cui la famiglia Axerio, e si dividono il lavoro. Antonio lavora per il fantasmagorico castello di Neuschwanstein di Ludwig II di Baviera, per Oscar I di Svezia, per Francesco Giuseppe d’Austria. E poi, sulla scia della sua fama, è richiesto in Russia, Romania e Ungheria. Con le ricchezze accumulate, il ragazzino di Rima ormai uomo cosmopolita può permettersi due case, a Vienna e a Berlino. Ma non si dimentica mai della sua Rima, dove ogni tanto fa ritorno. A chi si sta chiedendo perché De Toma e gli artigiani rimesi non abbiano avuto successo in Italia, la risposta è semplice: da noi c’era il marmo vero, e tanto. All’estero, dove bisognava procurarselo a carissimo prezzo, l’arte della scagliola è vincente.
Il successo dei tessitori della Carnia
La Carnia è una terra di montagna, oggi meta di turismo attratto dalla bellezza del Parco delle Dolomiti Friulane. Fin dal Cinquecento, gli abitanti di queste terre erano degli specialisti nella tessitura e l’indotto dei tessuti aveva favorito la presenza di cappellai, sarti, tintori. Il lino che si coltivava spesso non era sufficiente e si finiva per importare la materia prima dal Nord Europa e da altri Paesi del Mediterraneo. All’epoca non era strano che per qualche mese all’anno i tessitori emigrassero nelle terre vicine, dal Friuli al Veneto e al Trentino. Lo studioso Denis Visintin ha ricostruito la storia poco nota dell’emigrazione dei tessitori della Carnia in Istria, dove molti si sono insediati stabilmente, già a partire dalla seconda metà del Cinquecento. I carnici si distinguevano dal cognome Cargnelli nell’Istria asburgica. Erano molto richiesti soprattutto nell’entroterra, dove nessuno sapeva fare il loro mestiere. Tant’è che spesso si arricchirono al punto da dedicarsi anche all’acquisto di proprietà fondiarie. In anni più recenti, dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni tessitori istriani originari della Carnia si sono trovati a dover ripercorrere al contrario la strada dei loro antenati, per tornare nelle terre d’origine.
Gli intraprendenti abitanti di Piuro
C’è una città nella Polonia sudorientale, Lezajsk, celebre per un monastero cistercense e una basilica che conserva un imponente organo a 5900 canne del 1693, un vero gioiello barocco. L’edificio religioso è stato costruito fra il 1618 e il 1628 da un architetto italiano: Antonio Pelacini. Originario di Piuro, nella parte italiana della Val Bregaglia, a nord di Chiavenna, Pelacini è uno dei tanti migranti da queste terre di montagna che hanno lavorato nel settore delle costruzioni, dal semplice muratore al progettista. Uno dei primi nomi giunti fino a noi è quello di un tale Giorgio di Piuro, che nel 1548 lavorò come operaio al castello di Praga. Veniva da Piuro anche Guglielmo, che ha disegnato la chiesa di San Gian a Pontresina, mentre l’architetto Antonio Brocco fu attivo in Sicilia negli stessi anni in cui Pelacini si trovava in Polonia. Non c’è da stupirsi che questo piccolo comune, che oggi conta meno di 2000 abitanti, sia stato una fucina di tanti talenti: prima della frana che distrusse il paese e sterminò gli abitanti il 4 settembre 1618 – mentre Pelacini era Polonia – questo borgo di montagna era decisamente ricco, grazie alla posizione strategica sulla strada che portava verso il nord Europa. Le grandi famiglie di Piuro operavano come intermediari mercantili in Germania, Austria, Boemia, Svizzera, Polonia. Il giorno della frana, dei signori locali Vertemate Franchi si salvano Carlo, a Lione per affari, e i fratelli minori Luigi e Giovanni, in collegio a Bamberga: la loro sorte testimonia i forti legami con l’estero della famiglia. A Piuro e nella valle, però, non c’erano solo architetti e uomini d’affari. Da alcune frazioni del paese erano partiti alla volta di Venezia alcuni valligiani di professione luganeghèr, venditori di insaccati e cibi pronti. E dovevano essere proprio bravi se nel 1771 su 191 botteghe a Venezia 101 erano in mano loro. Quando la Serenissima li obbliga a scegliere se restare diventando veneziani o partire, alcuni si fermeranno, ma molti altri cercheranno fortuna altrove. Come Giovanni Gianinalli di Prosto che va a Praga, dove diventa un gestore di miniere e presidente della zecca, ottenendo dalla Boemia una nomina a barone.
I pasticceri dei Grigioni alla conquista del mondo
Che cos’hanno in comune Genova, Palermo e Berlino? La presenza di un caffè fondato da svizzeri, per la precisione grigionesi spesso di lingua e cultura italiana. Gente di montagna che oggi vive in una delle zone più ricche della Svizzera grazie allo sci e al turismo. Nei secoli passati, però, nella loro terra sopravvivere poteva essere complicato. Anche i grigionesi avevano un legame speciale con Venezia. Nel 1570 il Libero Stato delle Tre Leghe e la Serenissima firmano uno storico accordo: Venezia avrebbe accolto e lasciato commerciare gli emigrati grigionesi e in cambio i Grigioni si impegnavano a far transitare le merci veneziane. I ragazzi grigionesi che arrivano nella città lagunare, ricca e cosmopolita, si trovano catapultati nella New York dell’epoca. Molti di loro finiscono nei laboratori di pasticceri e panettieri dove imparano il mestiere. E quando dopo il 1766 i rapporti con Venezia si incrinano, i grigionesi vengono cacciati, ma ormai sono pronti per conquistare l’Europa. Per esempio, i Pomatti di Castasegna portano l’arte del marzapane veneziano a Köningsberg, l’odierna Kaliningrad. La loro bottega esiste tuttora. A Genova l’engadinese Vital Gasparo apre nel 1910 la Pasticceria Svizzera, in un palazzo che ha ospitato Byron. A Palermo si racconta che Tomasi di Lampedusa abbia scritto il suo Gattopardo al bar della famiglia grigionese Caflisch, proprietaria di caffè anche a Napoli e a Catania. I Fratelli Grimm, invece, pare che fossero clienti a Berlino del Caffè Josty, fondato da una famiglia di Sils Maria. Il bregagliotto Giovanni de Castelmur, uomo colto e scrittore, fu pasticcere a Nizza seguendo le orme del padre, che aveva una pasticceria a Marsiglia.