
Nirmal Purja ce l’ha fatta alla fine: con la salita dello Shisha Pangma ha completato la sua collezione di Ottomila. Ma come, si chiederà chi ha buona memoria, non l’aveva già fatto, ben cinque anni fa? Sì certo, nel 2019 aveva stabilito il record in appena sei mesi e sei giorni, ma l’aveva fatto con l’ausilio dell’ossigeno. Ora i 14×8000 li ha scalati tutti in modo pulito, senza bombole. Il primo era un risultato da Guinness dei primati, il secondo è un exploit alpinistico, ottenuto nel tempo record di due anni, quattro mesi e 28 giorni. Quindi complimenti e medaglia d’oro, finché qualcuno di più veloce non gliela porterà via!
Però, confesso che inizio a sentirmi un po’ confuso e a disagio in questa selva di record. Sono troppi, si accavallano e si obliterano tra di loro, e solo un impallinato di numeri e classifiche può starci appresso. Per non parlare del valore di tali primati: quello di Kristin Harila, per esempio, che nel 2023 ha scalato tutti i 14 giganti nel breve arco di tre mesi – giusto il tempo delle vacanze estive di un insegnante – a quale ambito appartiene? Alla storia dell’alpinismo? O alla variegata storia dei costumi e comportamenti umani? Inoltre l’avvento delle agenzie specializzate nell’alta quota ha inquinato il campo in modo irreversibile: chiunque con buona salute e un ingente conto in banca può oggi affidarsi a una compagnia di sherpa, come Imagine Nepal di Mingma Gyalje Sherpa (detto Mingma G, lo stesso che ha organizzato l’ultimo Ottomila di Nirmal) e sperare, al netto di valanghe e ictus, di salire qualche o tutti gli Ottomila. Questo ci porta alla seconda domanda: chi oggi insegue il record, perché lo fa? Per gli sponsor, per la gloria dello sport, per vanità, per i like?
Nel 1986 la gara era ancora aperta. Messner era in vantaggio ma Jerzy Kukuczka lo seguiva a un’incollatura. Non solo: rispetto all’altoatesino, stava facendo tutto in stile migliore, aprendo vie nuove, realizzando prime invernali, toccando gradi di difficoltà che a quote estreme allora erano fantascientifici. Quell’anno lo intervistai: ricordo una persona timida, di grande modestia, avvolta da un’aura di povertà di mezzi e di immensa passione. Arrivò secondo, il polacco, nella corsa agli Ottomila, e non se ne arricchì, perché l’Est Europa era ancora totalmente immerso nell’economia comunista, e perché, diciamolo pure, non era un bravo comunicatore. Tutto il contrario del suo avversario.
Messner aveva impiegato 16 anni a completare la collezione, Kukuczka otto. Nell’89 cadde il muro di Berlino, anche per gli alpinisti dell’Est le cose stavano diventando più facili, ma Jerzy Kukuczka non poté godere del nuovo clima politico ed economico, perché intanto era morto sulla Sud del Lhotse.
Dopo questa “gara” (inventata dai media e mai riconosciuta tale dai suoi due protagonisti), non ci sono stati più confronti simili nella recente storia dell’alpinismo. Non abbiamo più visto dei De Saussure/Bourrit o dei Whymper/Carrel contendersi qualche cima. Solo collezionisti. Alcuni bravi, altri meno, alcuni in buona fede, altri no. A quota Ottomila, è facile mancare una vetta per qualche decina di metri, oppure usare un po’ di ossigeno, come bambini che mangiano caramelle di nascosto, e non farlo sapere. A quota Ottomila l’etica tentenna, si obnubila. E i record non sono mai limpidi come quelli olimpici, cronometrati al millesimo. Per questo ci risulta difficile pensare ai 14×8000 come qualcosa di veramente alpinistico, e ogni nuovo primato ha il sapore stucchevole di un dessert troppo dolce. Anzi, induce un sonoro sbadiglio.