
Gli escursionisti che arrivano sul Monte Autore non rischiano di sbagliare. La vetta più alta della provincia di Roma, 1852 metri, nel Parco dei Monti Simbruini, culmina con delle rocce visibili da lontano. Sul punto più alto sorge una grande croce metallica, qualche metro più in là ce n’è una seconda più piccola, rivestita da collane, foulard e cimeli lasciati dai pellegrini diretti alla Santissima Trinità di Vallepietra.
Per una vetta sola, per di più in un Parco, dovrebbe essere abbastanza. E invece no. Sulle rocce della cima qualcuno ha scritto con vernice nera e pennello la scritta “Monte Autore 1852 m”. Qualcun altro ha replicato dall’altro lato, con la sola differenza di “mt” invece di “m”.
Ma l’uso del pennello in montagna è contagioso. E così, intorno alle scritte con nome e quota, sono comparsi un “Lazio me..a!” (che immagino verrà seguito da epiteti sulla Roma) e un vistoso “TIBUR” blu elettrico. Completa l’elenco un “Padre santo, aiuta il piccolo Filippo” che merita tutta la comprensione del mondo, ma che rischia di essere circondato da altre invocazioni simili.
Le usanze dei camminatori e dei Parchi possono cambiare nel tempo. Qualche anno fa i soci di Somma Trekking, un’associazione di escursionisti campani, hanno raggiunto i 2912 metri del Corno Grande, e hanno celebrato l’evento decorando la via normale e la vetta con il logo del loro gruppo, disegnato con una bomboletta di vernice.
L’iniziativa è stata immediatamente scoperta, sui social sono volati insulti e minacce, i Carabinieri Forestali hanno eliminato lo sfregio. Poi gli escursionisti, debitamente pentiti, sono stati ricevuti dal Parco del Gran Sasso e Monti della Laga, dove hanno chiesto scusa e sono stati perdonati. Sembrava una storia a lieto fine, invece era solo l’inizio.
Qualche decennio fa, sull’Appennino e sulle Alpi, la segnaletica, dove c’era, era più vistosa di oggi. Accanto agli storici ed ecologici ometti di pietre c’erano grandi frecce, e grandi “bandiere” di vernice. Poi tutto è cambiato, perché il CAI e i Parchi hanno deciso di utilizzare dei segnavia più piccoli.
Poi però, nell’Appennino centrale, è arrivata l’usanza di scrivere con vernice nera il nome e la quota sulle rocce di ogni vetta. Non so chi e quando abbia iniziato, anche perché nessuno dei pittori ha mai rivendicato i suoi interventi. La prima volta che ho visto una di queste scritte, confesso, ho ringraziato gli autori, perché ero su una piattissima cima della Maiella, c’era nebbia, e non sapevo bene dove fossi arrivato.
Poi, e sono bastati pochi anni, mi sono reso conto che i pennellatori stavano esagerando. Oggi nomi e quote compaiono su quasi tutte le cime dell’Appennino centrale, e si stanno allargando verso la Toscana, l’Emilia e il Mezzogiorno. Dopo le cime di duemila metri sono stati marchiate quelle più basse, dal Gennaro e al Circeo, e poi bivii e altri luoghi.
Non sono state risparmiate neppure le cime dove non sono possibili errori, come il Monte Amaro della Maiella, dove campeggia il rosso bivacco Pelino, il Corno Grande del Gran Sasso e il Monte Velino, coronato da una croce di ferro di cinque metri. E’ toccato anche al Monte Autore.
Non mancano errori di ortografia e di geografia, con scritte in luoghi sbagliati. A giugno quella che indica i 2093 metri del Monte San Gregorio di Paganica, al Gran Sasso, era stata spennellata sui 2076 metri dell’anticima, a centinaia di metri di distanza.
L’atteggiamento degli escursionisti cambia nel tempo, ma non lo fa sempre con coerenza. Oggi quasi nessuno abbandona più lattine o bottiglie sulle cime, mentre in passato era un comportamento normale. Bombolette e pennelli, invece, sono accettati da molti, anche se il loro uso, sdoganato sulle cime, ha portato alla comparsa accanto ai sentieri di scritte “forza!”, “manca poco” o affini.
Certo, si potrebbe obiettare, i segnavia bianco-rossi sono migliaia, e qualche pennellata in più fa poco male. Sulle cime compaiono croci, punti trigonometrici dell’IGM, targhe, e poi ripetitori, arrivi di seggiovie e altre strutture in cemento. E’ vero, ma solo fino a un certo punto.
Il vero inquinamento delle scritte sulle cime non è fisico, ma culturale. Deriva dalla stessa voglia di sapere esattamente e ossessivamente in che punto della crosta terrestre ci si trovi che spinge molti escursionisti a usare il GPS anche in giornate di visibilità perfetta, o a comunicare per radio in tempo reale, ogni pochi minuti, la loro posizione.
L’amico Franco Michieli, che teorizza e pratica una francescana semplicità sui sentieri, ha traversato per migliaia di chilometri la Norvegia senza portare con sé nessun ausilio. Non arrivo a tanto, uso regolarmente il GPS in auto, l’ho trovato fantastico durante un paio di traversate nel Sahara.
Sull’Appennino, però, credo che siano sufficienti un po’ di senso della montagna e una mappa. Affidarsi alla tecnologia per orientarsi riduce la capacità di farlo con mezzi naturali. E quando la batteria si scarica, come quando finisce la bombola di ossigeno sull’Everest, i rischi possono diventare seri.
Torniamo ai nostri (e anonimi) pennellatori delle vette, con i quali sono pronto a confrontarmi. La spiegazione che le scritte servono a orientarsi non ha senso, perché esistono le croci di vetta, i panorami sulle montagne vicine, e poi – ovviamente – le tracce GPS e le mappe.
Basta uno sguardo a Facebook e a Instagram per capire che spessissimo le scritte servono come sfondi per i selfie, o per documentare l’evento, come se qualcuno temesse di non essere creduto al ritorno. A molti l’abuso delle scritte dà fastidio, e anche questo sui social si vede. Ma pochi, finora, hanno avuto il coraggio di protestare o cancellare.
Sono sorpreso che i responsabili dei Parchi nazionali Gran Sasso-Laga, della Maiella, dei Sibillini e d’Abruzzo, Lazio e Molise non abbiano ancora vietato le scritte, e inviato Carabinieri Forestali o volontari a eliminarle. Mi stupisce che non abbiano fatto altrettanto le Sezioni CAI dell’Abruzzo, del Lazio e delle altre regioni colpite. Non capisco perché non si siano espressi Mountain Wilderness o il WWF.
Mi dispiace che il Club 2000m, che promuove e certifica la collezione dei 243 “duemila” dell’Appennino (un’idea che anni fa ho contribuito a lanciare), sia diventato di fatto il promotore delle scritte. Basta un’occhiata alla sua seguitissima pagina Facebook per vedere scritte di vetta in tutte le salse, dritte o rovesciate, lasciate a terra o issate come trofei. Mi chiedo se una moratoria di un mese le renderebbe meno virali, ma non sono io a decidere.
Non c’è dubbio – lo ripeto ancora una volta – che edifici, seggiovie abbandonate ed elicotteri danneggino le vette più qualche pennellata di vernice. Trovare una cima al naturale, però, a migliaia di escursionisti dà gioia. I pennellatori delle vette, oltre a imbrattare l’ambiente, riducono per molti il piacere di andare in montagna per molti. Non è possibile fermarli?