
Esprimere giudizi riguardo la modalità con cui si frequenta la montagna non porta a nulla.
Districarsi tra bello o brutto, concetti plasmati da molteplici stratificazioni culturali, significa muoversi su un terreno assai scivoloso.
Anche quassù canoni e cultura sono in continuo movimento, con nuove esigenze e cambiamenti sociali che condizionano, nel bene e nel male, il nostro andar per monti e ciò che ci pare brutto oggi, può diventare gradevole domani.
Si può però fuggire dalla distinzione bello-brutto, assai limitata e concentrarsi invece sull’armonia-disarmonia del nostro muoversi nelle Terre alte.
L’armonia è qualcosa che si può cogliere: è ritmo, proporzione, relazione, sintonia e può coinvolgere tutti i campi percettivi e sensoriali. La rottura di questo ritmo genera sempre una reazione.
Chi è cresciuto educato all’armonia, a gesti appropriati verso la natura e quindi verso noi stessi, riconosce all’istante gesti e paesaggi disarmonici.
Chi non ha mai sperimentato il senso armonico dell’appropriatezza, chi è facile preda dell’accelerazione, del ritmo forsennato e caotico, non sa più riconoscere intuitivamente l’armonia.
Chi è preda del bombardamento dell’omologazione, oltre ad ignorare lo spirito dei luoghi, alimenta, ignaro, la disarmonia all’interno di questi luoghi rari e preziosi.
Per cogliere l’armonia che captiamo con gli occhi e di conseguenza la bellezza della natura, risulta indispensabile un certo allenamento della percezione delle forme.
Vivere costantemente in luoghi dove la vista è offesa non aiuta a riconoscere la disarmonia delle nostre azioni in natura, quando i nostri occhi si sono totalmente abituati alla vista di infrastrutture, villette, recinzioni, cartelloni pubblicitari, insegne e capannoni propagati ovunque. Qui nostro sguardo si è assuefatto e la profondità di campo si è inesorabilmente accorciata, infrangendosi sistematicamente su muri e confini artificiali.
Non è un caso se, alla fine, nelle zone brutte e degradate si trova la massima incidenza di malviventi.
Scatta così una progressione inarrestabile, che raggiunge anche gli spazi più remoti e inaccessibili, dalle Alpi alla vetta dell’Everest: disarmonia, dimenticanza di comportamenti appropriati, maggior disimpegno, dissoluzione del Genius Loci…
Scompare all’istante quella divinità impersonale che sa incarnare il senso del luogo, con i suoi colori, odori, le sue parvenze, le sue magie, i suoni e tutte le parole che ad esso si possono legare.
Al pari di quel che accade in pianura, sterilizzato lo spirito dei luoghi, la montagna diventa un supporto inerte e il frequentatore diventa facile preda di demagoghi e commercianti.
Forse non basta prendersi cura, ma anzitutto riconoscere che in ogni luogo c’è altro oltre all’uomo, e di più rispetto alle dimensioni di quel che vediamo, la cui presenza e persistenza richiede rispetto e responsabilità.
Ṛta (ऋत), termine sanscrito che compare nei più antichi Veda ed è fondante nel vedismo. Con Ṛta si intende l’“ordine cosmico” a cui soggiace l’intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l’associazione tra il rito sacrificale e l’universo a cui esso è strettamente associato. Esso prelude, quindi, al termine più diffuso, e successivo, di Dharma.
Il termine Ṛta deriva da Ṛ (radice sanscrita di “muoversi”) e *ar (radice indoeuropea di “modo appropriato”), quindi “muoversi, comportarsi, in modo corretto”.