
Non tira una buona aria per i bivacchi delle montagne italiane. E non solo perché qualcuna di queste piccole e preziose strutture diventa inagibile a causa del cambiamento climatico. Dell’ultimo di questi casi, il crollo del bivacco Meneghello sul Cevedale, ci siamo occupati da poco. Ma c’è anche un problema diverso. Contro i bivacchi, e una parte dei loro frequentatori, protestano albergatori, gestori dei rifugi e sindaci.
L’ultimo caso è stato sollevato in Trentino. “Usano il bivacco per fare le vacanze gratis, gli alpinisti sono costretti a dormire all’aperto, e noi rifugisti dobbiamo ripulire la spazzatura abbandonata” ha dichiarato il 31 luglio al quotidiano online Il Dolomiti l’alpinista Duilio Boninsegna, gestore del rifugio Pradidali, sulle Pale di San Martino.
Il rifugista, intervistato da Sara De Pascale, se l’è presa con i social e YouTube, che “mostrano filmati di strutture in quota spingendo tanti a raggiungerle solo perché hanno visto il video”, per poi “farsi le vacanze gratis”. Boninsegna, nel suo sfogo, distingue tra i bivacchi “salvavita” come quelli sulle vette della Pala di San Martino e del Crozzòn di Brenta, e quelli “di più facile accesso, dove la frequentazione è meno selettiva” e potenzialmente dannosa.
Come esempio, il rifugista trentino cita il bivacco Carlo Minazio della Sezione di Padova del CAI, installato molti anni fa nel Vallon delle Lede sull’Alta Via numero Due delle Dolomiti. Una struttura in ambiente selvaggio, che si raggiunge dalla Val Canali con una rude scarpinata classificata EE, con tratti di facile arrampicata. Più volte, conclude Boninsegna, lui e i suoi collaboratori del Pradidali hanno dovuto raggiungere il bivacco (un paio d’ore, sola andata) per pulirlo.
Della questione si dibatte da tempo, e non solo per le Pale e il bivacco Minazio. Le Sezioni del CAI, come conferma Riccardo Giacomelli, presidente della Commissione nazionale rifugi, posseggono 247 bivacchi e 65 rifugi incustoditi. Si aggiungono all’elenco i bivacchi di altre associazioni come la Giovane Montagna, centinaia di malghe trasformate in punti di appoggio per escursionisti, e i “baiti” (al maschile), piccole costruzioni di legno tipiche della Val di Fiemme e dei Lagorai, in Trentino.
Realizzate da associazioni locali a volte dai nomi pittoreschi (come La mora mae, “Non muore mai” di Tesero, proprietaria del baito dell’Armentagiola sui Cornacci) offrono qualche posto per dormire, una stufa-cucina a legna e una fonte. Per usarle serve il sacco a pelo. Trattarle con rispetto è doveroso, ed è buona norma lasciarle in condizioni migliori di come le si sono trovate. Sono nate per gli escursionisti, ed è logico che vengano utilizzate da loro.
La storia dei bivacchi d’alta quota è diversa, ed è un’eccellenza italiana. Nel 1925, i soci del CAAI, il Club Alpino Accademico, usi ad aprire nuove vie senza farsi accompagnare da guide, inaugurano la prima “scatoletta” di legno e metallo (2,25 per 2 metri alla base, 1,25 metri l’altezza) nel vallone di Fréboudze, sul Monte Bianco, ai piedi dell’Aiguille de Leschaux e delle Jorasses.
Negli anni che seguono, strutture simili sorgono in luoghi altrettanto selvaggi. I fornelli devono essere portati nello zaino, a volte si trovano un paio di vecchie pentole e qualche candela, coperte più o meno sdrucite rendono superfluo il sacco a pelo. “Proprietà del Club Alpino Accademico Italiano. Chiudere bene la portina. Appendere le coperte. Rotolare la stuoia. Curatene la conservazione” recitano dei cartelli.
Nel dopoguerra arrivano i bivacchi modello Apollonio, più alti e comodi, con 6 e poi con 9 cuccette. Negli anni, queste strutture compaiono anche sul Rosa, sul Gran Paradiso, sulle Alpi centrali e orientali e sull’Appennino. Si installano bivacchi sulla Maiella e sul Gran Sasso, sulle Alpi Carniche e Giulie, sulle Dolomiti d’oltre Piave, le Marmarole e la Schiara. E nei settori più selvaggi di catene famose, come il Brenta settentrionale.
Nello stesso periodo su molte vette, dalle Dolomiti al Badile, compaiono bivacchi “salvavita” per accogliere le cordate che arrivano tardi o con il maltempo. Che sorgano sulle cime o più in basso, si tratta di strutture destinate agli alpinisti. I camminatori sono liberi di raggiungerle, se il percorso non include rocce o ghiacciai. Il galateo, però, suggerisce loro di limitarsi a una frequentazione diurna, e di lasciarli per la notte a chi l’indomani ha in programma ascensioni impegnative.
Tutto chiaro? No, e per più di un motivo. Negli anni Sessanta e Settanta, per rendere possibili le Alte Vie dolomitiche e altri trek, decine di bivacchi vengono installati lungo i sentieri. Nei bivacchi non si paga, e questo li rende appetibili per ragazzi che cercano di risparmiare il più possibile sul costo delle strutture di fondovalle e dei rifugi.
Affollamento, e in qualche caso litigi, avvengono in bivacchi che interessano sia a chi cammina sia a chi scala, come il già citato Minazio, il Dal Bianco alla base della parete Sud della Marmolada, il Rainetto ai piedi dell’Aiguille de Trélatête, sul Monte Bianco, o il Leonessa del Gran Paradiso.
Molti visitatori non lasciano immondizia, qualcuno purtroppo lo fa. A volte, a invocare lo smantellamento dei bivacchi sono i gestori dei rifugi o gli albergatori del fondovalle, e questo ci sembra francamente un eccesso. La Sezione di Roma del CAI, che negli anni Sessanta costruisce sulle Dolomiti due bivacchi (l’Helbig Dell’Oglio alla Croda Rossa e il Dalla Chiesa sui Lagazuoi) li cede qualche decennio più tardi alla Sezione di Cortina. E questa li smantella senza nemmeno avvisare i romani.
In controtendenza, negli ultimi anni, va la Valle d’Aosta, dove il CAI, l’ANA e altre associazioni, spesso con fondi regionali, costruiscono nuovi bivacchi, più grandi (10-12 posti) e confortevoli dei vecchi, come il Pascal alla Testa di Liconi o il Penne Nere alla Becca di Viou. Strutture che, almeno in condizioni estive, sono rivolte agli escursionisti.
In realtà, la “nuova frontiera” dei bivacchi delle Alpi e dell’Appennino riguarda solo in piccola parte le strutture in legno e metallo costruite in luoghi troppo remoti e scomodi per giustificare un rifugio. Dagli anni Ottanta, motivazioni ambientaliste e la voglia di rendere accessibili aree prima trascurate spingono il CAI e altre associazioni a recuperare e a trasformare in bivacchi decine di malghe abbandonate.
Si muovono nella stessa direzione aree protette come il Parco nazionale della Val Grande e il Parco regionale delle Dolomiti Friulane. Oltre che nei “baiti” di legno del Trentino, diventa possibile pernottare nelle casere in muratura delle Vette Feltrine e nelle vecchie costruzioni in pietra lavica dell’Etna.
In queste zone il conflitto con gli alpinisti è raro, ma l’invito per gli escursionisti a rispettare gli edifici e il paesaggio diventa ancora più pressante. E’ una regola d’oro anche non restare più di una o due notti, per non impedire ad altri di pernottare a loro volta quassù. Chi imbratta, chi sporca, chi s’installa per un periodo troppo lungo non danneggia solo la struttura che utilizza, ma rischia di dare un brutto colpo a tutti i bivacchi dei nostri monti.