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#Landback, i nativi americani reclamano il Monte Rushmore

E accusano il governo USA di etnocidio

Il Monte Rushmore, l’iconica vetta degli Stati Uniti su cui sono scolpiti i volti dei quattro presidenti americani George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln, è oggetto di una delicata protesta da parte dei nativi americani. Il sito rappresenta una delle principali attrazioni turistiche del Paese, si stimano (in tempi non di pandemia) circa 3 milioni di visitatori l’anno provenienti da ogni angolo del globo. Gli indigeni non disapprovano né si oppongono a tale frequentazione, ma richiedono che il Monte Rushmore sia riconosciuto come un simbolo dell’oppressione delle loro genti. I Nativi (tribù Sioux) vorrebbero recuperare il controllo della vetta, per renderla una sorta di museo al loro Olocausto degli USA.

“Il mondo deve sapere cosa ci è stato fatto”, ha dichiarato in una intervista al quotidiano britannico The Guardian Phil Two Eagle, membro della tribù Rosebud Sioux nel Sud Dakota e direttore esecutivo del Sicangu Lakota Treaty Council. Two Eagle ha tenuto a sottolineare che il genocidio perpetrato da Hitler trovò ispirazione nella pulizia etnica portata avanti negli Stati Uniti a danno dei nativi americani, tra 19° e inizio 20° secolo.

La richiesta di controllo sul Rushmore si inserisce nel più ampio movimento di protesta per la riconsegna delle terre un tempo appartenute alle tribù indiane, che va avanti da decenni, per non dire secoli. Oggi sembra che si possa intravedere una luce in fondo al tunnel. La ragione è che il Governo Biden abbia concesso la posizione di Segretario degli Interni a Deb Haaland, membro della Laguna Pueblo, quindi una nativa americana. Si tratta della prima volta nella storia. Una prima volta che fa ben sperare i Nativi di vedere finalmente riconsegnate le terre loro sottratte.

Il Monte Rushmore, una vetta sacra

Il Monte Rushmore si trova nel massiccio montuoso delle Black Hills, una zona ricca di foreste considerata sacra dai Lakota, tanto da definire le Black Hills “il cuore di tutto ciò che esiste”. Dopo decenni di aspri scontri, le tribù Lakota, Dakota e Nakota arrivarono a un accordo con il governo statunitense, stipulando i trattati di Fort Laramie nel 1851 e 1868. Tali accordi portarono alla nascita della Grande Nazione Sioux, una “casa permanente” per le tribù, che occupava interamente la metà occidentale del Sud Dakota, incluse le Black Hills.

Ma nel 1874, il tenente colonnello George Armstrong Custer avviò una campagna di ricerca senza permesso da parte degli indigeni sulle Black Hills, scoprendo importanti giacimenti di oro. Senza badare troppo ai trattati, che la costituzione USA definisce “suprema legge della terra”, il governo federale acconsentì allo sfruttamento dell’area delle Black Hills nonché di quelle circostanti.

I Nativi poterono fare ben poco, dovettero cedere gran parte del territorio e trasferirsi in piccole riserve, ovviamente su terreni non utili agli USA.

Pochi decenni più tardi dovettero assistere alla comparsa sulle cime granitiche dei 4 volti dei presidenti, due proprietari di schiavi e altri due ostili ai nativi americani. 4 volti nemici scolpiti su una montagna sacra ai Lakota, detta “Tunkasila Sakpe”, ovvero i sei antenati o sei nonni (The Six Grandfathers).

La vetta divenne “Mount Rushmore” dal nome del finanziatore dell’opera,  l’impresario Charles E. Rushmore. Un team guidato dallo scultore Gutzon Borglum impiegò oltre 10 anni per completare l’opera, dal 1927 al 1941.

Il movimento #landback

La protesta dei Sioux di riconoscere il Rushmore come un monumento all’oppressione dei nativi americani sembra essere stata alimentata dal movimento della scorsa estate “Black Lives Matter”. In sintesi il Collettivo NDN, un’organizzazione indigena senza scopo di lucro con sede a Rapid City, ha pensato di promuovere una campagna similare per richiedere il ritorno delle Black Hills agli indigeni. A convincere ancor di più il Collettivo che fosse il momento di far sentire la propria voce è stata l’idea di Donald Trump di festeggiare il 4 luglio, l’Indipendence Day, con uno spettacolo pirotecnico sul Monte Rushmore.

In tale occasione il Collettivo ha organizzato una protesta, pacifica, bloccando la strada di accesso al parco. Gli indigeni hanno indossato per l’occasione penne di aquila e suonato tamburi, per fare più scena che altro. Ma nonostante l’assenza di violenze, 20 attivisti sono stati arrestati. I video della protesta sono diventati virali e ha iniziato a diffondersi l’hashtag #landback, per sintetizzare la richiesta di riconsegna ai Nativi di quello che è stato definito un “simbolo internazionale della supremazia bianca”.

Una richiesta, come evidenziato da Elise Boxer, una nativa Dakota, professoressa alla University of South Dakota dove dirige il programma di studi sui Nativi Americani, che non è ben compresa dai non indigeni. “Non si tratta di una questione di proprietà della terra. Piuttosto di riconquistare il rapporto spirituale con le nostre terre”.

C’è chi ritiene che i Nativi vogliano semplicemente riconquistare una terra da cui si possa ricavare moneta. “Siamo poveri perché le nostre risorse ci sono state sottratte e quelle risorse hanno portato altri a guadagnare miliardi di dollari – ha dichiarato al The Guardian Red Dawn Foster, membro degli Oglala Lakota – . Ma la nostra connessione con Black Hills non è di carattere monetario. La nostra principale preoccupazione è rappresentata dal fatto che si tratti di una terra sacra e vorremmo tornare ad assumere il nostro ruolo di protettori della terra, questo è il proposito dei Lakota.”

Ciò che viene richiesto agli Stati Uniti è un “semplice” scambio di ruoli nella gestione delle Black Hills, trasferendo le responsabilità dallo US Forest Service o il Park Service alla Grande Nazione Sioux.

Qualcosa inizia a muoversi

Come anticipato, l’attuale Segretario degli Interni Deb Haaland ha iniziato a smuovere le acque, riconsegnando da inizio mandato (marzo 2021) ben 19.000 acri di territorio federale alle tribù in altre zone degli USA, compreso il National Bison Range in Montana.

La Haaland avrebbe anche sollecitato Biden a rivedere i confini del Bears Ears National Monument, allo scopo di riportarlo alle dimensioni originali e proteggere così molteplici siti culturali dei Nativi.

Cosa si può fare per la questione Monte Rushmore? Bisognerà valutare attentamente i meccanismi legali che potrebbero consentire il trasferimento del controllo della montagna e delle Black Hills alle tribù, ad esempio presentare un disegno di legge che tenga conto dell’Indian Determination Act del 1994. Mentre si riflette sui mezzi, cresce la pressione del movimento #landback. Risulta anche avviata una petizione per richiedere la chiusura totale del Rushmore e la riconsegna alle tribù di Black Hills, che avrebbe già raggiunto le 44.000 firme.

Una soluzione intermedia

In attesa che si veda cosa, sotto la Presidenza Biden, si riuscirà a fare in termini legali per riconsegnare alle tribù il ruolo di “protettrici della terra” delle Black Hills, lo staff del Monte Rushmore ha trovato una soluzione intermedia: nel corso dei tour guidati è possibile scoprire dettagli sulla storia delle tribù, mediante una idonea cartellonistica distribuita lungo il sentiero principale del Parco.

Una soluzione che i Nativi sperano ovviamente sia temporanea. “Dopo 500 anni di ingiustizie, non puoi semplicemente mettere su un villaggio fake presidiato da un nativo simbolico e pensare che vada tutto bene – ha commentato Two Eagle – . Vogliamo incontrare il Presidente Biden e chiedere di onorare i trattati. Vogliamo capire cosa voglia fare per fermare l’etnocidio del nostro popolo.”

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