
Basta pronunciare quel suo nome fulmineo, Ueli Steck, per riassumere quel che ha rappresentato in questi anni per gli alpinisti e gli appassionati di montagne: la tecnica dell’arrampicata su roccia e ghiaccio portata all’estremo su grandi pareti e montagne, da salire con scioltezza, velocità, con un respiro lungo, nell’eleganza del gesto continuo che allarga gli orizzonti mentre sali verso l’alto. Persino nella comunicazione, anche quella commerciale riusciva ad essere discreto.
Ueli, “la Swiss machine” era anche uomo di indubbia modestia nell’annunciare e nel raccontare le sue imprese, che vivono di luce propria, ma anche riflessa dalla competenza dei suoi tantissimi estimatori.
Le sue gambe e le sue mani di acciaio, la sua determinazione e la leggerezza della sua azione, solo la montagna o il destino potevano frapporsi tra lui e il suo nuovo grande sogno. È accaduto, non sappiamo come, ma l’imponderabile ancora una volta ha avuto la meglio e ci ha riportato alla realtà dura e cruda dell’alpinismo che mantiene un’insidiosa pericolosità.
Non vorremmo mai scrivere queste parole. Vorremmo dar retta agli ipocriti che i morti della montagna li seppellirebbero senza darne notizia, ma questa è la coda dolorosa dello sport, della passione che disperatamente amiamo.
Non ci rimane, ancora una volta, che abbassare gli occhi di fronte alla tragedia e alla grandezza di un uomo, un alpinista che con la più grande dignità ci ha riempito di stupore per le sue imprese.
Grazie Ueli.