L’urlo della montagna

Ripartire, tra vecchi problemi e nuove sfide

Da est a ovest, da sud a nord, sulle montagne italiane risuona solo una parola “ripartenza”. Ricominciare dopo due anni difficili, come sta provando a fare l’intero Paese, rinascere, trovare soluzioni ad antichi problemi. La pandemia da Coronavirus ha spogliato le nostre montagne portandone alla luce pregi e difetti, ha svelato i problemi che da sempre caratterizzano le terre alte.

Difficoltà che non sono facilmente generalizzabili, ma che vanno analizzate singolarmente calandosi sulle realtà territoriali. Perché, se da un lato sono emersi i profondi limiti della monocultura dello sci, dall’altra parte sono saltati agli occhi quelli legati al disinteresse per valli e borghi montani, oggi sempre più poveri di servizi e quindi poco attraenti per un ripopolamento e per creare nuovi circuiti turistici. In questo contento, a tratti sconfortante, a vincere è la natura. Quella che ci è mancata nei mesi del primo lockdown e delle successive chiusure, quella che ci ha fatto respirare d’estate come d’inverno un’aria, quasi, di normalità. Ed è lì che la montagna ha avuto un riscatto.

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Lo dimostrano i numeri e quella forma di turismo che nell’ambiente chiamiamo “dolce” o “sostenibile” che ha raggiunto numeri incredibili nel corso degli ultimi due anni. Ma anche qui bisogna fare attenzione a non generalizzare, perché questo modo di vivere la montagna è dolce o sostenibile proprio perché finito. In poche parole: lo possiamo sviluppare, ma finché l’ambiente naturale lo consente. Oltre si trasforma in un assalto da cui nessuno guadagna più alcunché.

Il virus ci ha uniti, dicono, ma in montagna lo si è era già prima. Quando si combatte quotidianamente con le difficoltà ambientali o si fa squadra o non si combina nulla. Se c’è una cosa che il Coronavirus ha portato in montagna o, meglio, giù dalle montagne, è un disperato grido di attenzione.

L’autostrada bianca della neve

Sono poco meno di 6000 i chilometri di piste da sci che corrono tra Alpi e Appennini, mille in meno rispetto alla nostra rete autostradale nazionale. Potete quindi immaginare il grande lavoro che si cela dietro queste strade bianche dove ogni inverno gli appassionati si mettono alla prova e si divertono tracciando curve su discese da mozzare il fiato. Nel marzo 2020 i 290 comprensorio italiani si fermano, insieme al resto del Paese. La loro pausa dura un anno e mezzo, perché anche nella stagione 2020/2021 lo sci in pista non trova spazio di movimento nel bel mezzo delle ondate pandemiche. Il risultato è il quasi collasso della montagna “dove nevica firmato”. Il mondo delle piste genera un indotto di circa 20 miliardi di Euro in Italia, tenendo conto anche di tutte le attività economiche che negli anni hanno specializzato la propria offerta sul tema (strutture ricettive, maestri e scuole di sci, negozi). Una macchina che offre lavoro a circa 400mila persone.
Secondo i dati riportati da ANEF, la perdita di fatturato per la stagione 2020/2021 si è aggirata intorno al 98%, un numero che per molti territori significa collasso economico. E a dirlo sono stati operatori e governatori, soprattutto delle Regioni alpine, ricordando come ben il 40% del fatturato turistico invernale in montagna sia dato dallo sci in pista nelle due settimane di feste natalizie. Un numero che incute un certo timore riguardo la centralità di questo modello di sviluppo messo in crisi non solo dalla pandemia da Coronavirus, ma anche dalla crisi climatica. La conseguenza di quest’ultima sono gli aumentati costi di mantenimento delle piste, con il sempre più frequente innevamento artificiale. Per fare un esempio il comprensorio della Via Lattea, sulle montagne olimpiche piemontesi, con i suoi 400 chilometri di piste richiede una spesa di circa 5 milioni di Euro per l’innevamento. Costi difficili che gravano come macigni se poi la stagione non parte. Ecco allora che vengono a galla i molti limiti di un’economia basata su un’unica carta. Se nel corso degli anni si fosse differenziata l’offerta sarebbe stato diverso? Parlare col senno di poi serve a poco, ma oggi la risposta pare quanto mai scontata.

Quando i numeri si fanno grandi…

Non chiudete la montagna lontana dalle piste”. A dirlo era lo scrittore premio Strega Paolo Cognetti, da sempre sostenitore di una montagna diversa, più lenta e consapevole. Cognetti ha fatto sentire la sua voce anche nel periodo di pandemia e, in coro con lui, molti altri esponenti del mondo della montagna: da Enrico Camanni, a Giorgio Daidola.

Secondo un’analisi condotta da Legambiente già prima della pandemia il mondo dello sci in pista stava perdendo di appeal verso il pubblico. Una conferma che è arrivata con le prime riaperture dopo il lockdown e che prosegue tutt’ora. Infatti, se le piste se la sono vista brutta, così non si può dire della montagna che ha vissuto le ultime stagioni da grande protagonista. Una montagna lenta, dove ricaricare le batterie ricercando un contatto con il territorio, senza forzature. Lo dimostra quanto successo nella valli minori nell’estate 2020. “La nostra valle è tra le più selvagge e incontaminate della Valle d’Aosta, l’unica senza impianti di risalita” afferma Daniele Pieiller, dell’associazione NaturaValp, che vive a Bionaz, capoluogo della Valpelline. Daniele, insieme agli altri membri dell’associazione, è stato un visionario imprenditore. In tempi miopi ha deciso di provare a costruire un nuovo modello turistico, dedicato a una frequentazione dolce della montagna. “La montagna senza impianti di risalita è una montagna molto più difficile da proporre turisticamente” spiega. “Non volevamo creare un classico consorzio in cui decidere quali strategie di marketing approntare, volevamo creare un progetto e seguire dei princìpi che ci potessero dare una prospettiva di lungo periodo”, questo mettendo al centro la naturalità della valle e la qualità di un territorio quasi non toccato dall’attività umana. Il lavoro di promozione messo in campo dall’associazione riesce e, tra il 2012 e il 2017, ha portato un aumento delle presenze da 20mila a 50mila persone.

Ciaspole. Foto via Pexels
Valpelline. Foto @ Daniele Pieiller
Scialpinismo in Valpelline. Foto @ Daniele Pieiller
Valpelline. Foto @ Daniele Pieiller
Uno sviluppo  che permesso di attrarre nuovi investitori sul territorio, persone che hanno rimesso mano a vecchi edifici abbandonati, ristrutturandoli a trasformandoli in attività produttive o in luoghi di accoglienza. “La crescita di cui abbiamo parlato – tiene a sottolineare Daniele – non riguarda solo l’estate, ma parla anche di inverno. Un fenomeno che ci ha stupiti moltissimo perché non avendo impianti di risalita il turismo nei mesi invernali è sempre stato inesistente, se non per qualche raro sci alpinista. Nel giro di 5 anni siamo riusciti a fare un salto da 800 presenze tra dicembre e febbraio a quasi 10mila”. Come la Valpelline esistono molte altre località “minori” che su Alpi e Appennini hanno saputo ritagliarsi il proprio spazio economico nell’industria del turismo. Luoghi che hanno preso la semplice, ma per nulla scontata, decisione di puntare su quel che di più prezioso ha da offrirci la montagna: la sua natura.

Anche in questi luoghi il turismo è stato azzerato dalle chiusure imposte per il contenimento della pandemia da Coronavirus, ma dopo le prime riaperture è successo qualcosa di molto particolare. “Tra giugno è luglio 2020 abbiamo assistito a un aumento esponenziale del turismo di giornata”. Si sale, ci si gode un giorno tra le montagne e si rientra a casa. L’esplosione del turismo di prossimità che “nell’immediato ha aumentato i guadagni di moltissime attività e che ci ha portati a fare dei ragionamenti. Nei giorni di maggior afflusso, qui a Bionaz, siamo arrivati ad avere fino a mille persone a giornata. Dati i grossi numeri abbiamo deciso di fare un’indagine per comprendere quello che è stato l’indotto sul territorio e i risultati sono stati sconfortanti: nemmeno 2000 Euro. Tra le offerte che portiamo avanti da sempre c’è l’iniziativa di una visita/scoperta delle attività produttive di valle, con la possibilità oltre a soggiornare in zona e degustare prodotti a chilometro zero di acquistarli. Con 8 persone l’indotto che si ottiene raggiunge i 3000 Euro"

Dobbiamo allora farci una domanda: preferiamo avere il parcheggio di valle pieno e grandi numeri, di difficile gestione, sui sentieri, oppure perseguire una filosofia diversa?
Il ragionamento è semplice, ma porta all’attenzione due domande importanti: se il turismo consapevole diventa un fenomeno di massa viene snaturato? La montagna è solo un substrato dove praticare un’attività o un luogo di scoperta dove vivere un’esperienza e dove lasciare qualcosa perché questa oasi di freschezza possa continuare a esistere? Domande banali, ma portate all’attenzione proprio dai nuovi numeri venutisi a creare in tempo di pandemia. Affollare un parcheggio in quota con duecento o trecento auto, riversarsi in migliaia sullo stesso sentiero, possono avere conseguenze deleterie non solo sulla nostra voglia di ricercare pace, ma anche su quell’ambiente che vorremmo mantenere intonso. Il risultato più ovvio della massificazione è l’omologazione, che vorrebbe dire cancellare le peculiarità del turismo lento. Come gestire quindi questo fenomeno? “Facendo cultura”, e puntando su un tipo di montagna diversa con attività che permettano ai nuovi frequentatori di conoscerla e scoprirla, magari lasciando in città il panino fatto con i prodotti del supermercato sotto casa e scegliendo invece un prodotto del territorio.

Urlare per farsi sentire

Ma il turismo di prossimità non ha riguardato solo la natura e le valli del turismo green o lento. È un fenomeno che dopo il primo lockdown ha interessato tutte le sfumature della montagna, anche quelle che si sono spopolate e che continuano inesorabili in questo processo di abbandono. La spina dorsale del nostro Paese ne è un esempio chiaro e preciso. Dalla Liguria al Gran Sasso, fino a raggiungere il profondo sud calabrese, per poi continuare sulle montagne siciliane e sarde.

L’entroterra italiano è consegnato a luogo marginale anche in Abruzzo, dove le montagne occupano il 65% del territorio regionale. Su queste montagne rifugisti come Luca Mazzoleni hanno avuto un’unica possibilità per rispondere alle misure di contenimento del Covid-19: chiudere la struttura ai pernotti. Luca gestisce il rifugio Carlo Franchetti, un vero e proprio punto di riferimento per i frequentatori del Gran Sasso, la più alta cima della catena appenninica. “Nel 2020 ho dovuto sospendere del tutto i pernottamenti” racconta. “Sono una buona parte degli introiti, ed è stato un problema. Con le riaperture c’è stato un boom della montagna, con meno gente a dormire e tanta in più a frequentare bar e ristoranti compensando le perdite”.

Ma questo non basta, perché se il turista sale e scappa, significa che qualcosa non funziona. Vuol dire che non ci sono servizi, e questo la pandemia l’ha fatto emergere in modo forte. “Soprattutto nel caso dei piccoli centri, non bisogna tener conto solo della presenza dell’escursionista, del montanaro o dell’alpinista, ma anche del servizio che si offre alla comunità” afferma Gaetano Falcone, past president CAI Abruzzo. “La farmacia, il medico, i trasporti di paesi lontani verso città come L’Aquila, Sulmona, Avezzano. È questo che dovrebbero considerare i politici per dare maggiore impulso al territorio: non c’è soltanto il turista che viene, mangia e se ne va, bisogna curare le persone che restano in paese”. Bisogna, detto in poche parole, ricostituire l’antico senso di comunità, quello che oggi raramente si trova nei centri maggiormente compromessi delle Alpi e in molte porzioni dell’Appennino, dove la vicinanza alla pianura è stata un’attrazione ancora più forte e dove appare chiaro, dopo gli ultimi due anni vissuti, come sia necessario e fondamentale far salire fondi e finanziamenti in quota. Fondi capaci di dare nuova linfa vitale a un territorio che non solo parla a voce alta, ma che urla pur di farsi sentire.